Anni fa’, preparando un esame di storia romana, mi ritrovai di fronte ad un articolo che parlava della Polinesia. Può sorprendere ma non è difficile che studiando storia si finisca a studiare antropologia, e di conseguenza irrimediabilmente in Polinesia o in Alaska, dato che gli antropologi, nella loro grande apertura mentale, non sono in grado di concepire l’esistenza di altri luoghi nell’universo.
L’articolo riportava la difficoltà dei missionari occidentali nel portare il cristianesimo in alcune isole, una sorta di scontro contro una fede materialista difficile da valicare. Agli indigeni non pareva vero che la loro divinità locale fosse falsa quando avevano la grotta in cui aveva fatto la tal cosa. Quella grotta, rispetto ad un’altra grotta di Betlemme, era una cosa vicina, visibile, reale, ergo più vera. Era molto più facile credere al racconto che riguardava quella spelonca perché lo si poteva fare avendola davanti.
Può sembrare assurdo, ma occorre uno sforzo metafisico non indifferente per poter credere al racconto di una persona su una terra lontana. Siamo creature orientate principalmente all’esperienza e ci verrà difficile ragionare sul fatto che nell’emisfero boreale le stagioni siano invertite, o che non si veda la stella polare, o ancora che esista il tal animale esotico vicino alle cascate Paradiso. Non si tratta solo di un aggrapparsi al noto, ma a qualcosa di più che noto, a qualcosa che abbiamo visto e toccato con mano, o addirittura vissuto; è il tipico caso delle illusioni ottiche: a fatica accettiamo che ciò che abbiamo percepito in realtà non sia la verità.
Quello, insomma, a cui dedichiamo la nostra fede non è la prova di qualcosa, quanto un referente oggettivo. E qui iniziano a cascare gli asini e i cammelli. Una delle truffe più vecchie del mondo consiste proprio nell’usare un oggetto per dimostrare la verità delle proprie affermazioni. Il ciarlatano del Far West simulava persino la guarigione miracolosa di un complice, e tanto bastava a convincere la gente a comprare i suoi intrugli. Con questa prospettiva è chiaro che una gita delle medie al museo della tortura vale molto di più di un articolo ben documentato.
La modernità si fa beffe di chi venera le reliquie, per poi cascare in un errore altrettanto grossolano: non porsi neanche il problema della loro realtà. Anzi, fa un errore ancora ulteriore: va in cerca delle reliquie che provano le storie. Si dimentica facilmente che l’eziologia è una strada a doppio senso: si può usare una storia per provare un oggetto, o un oggetto per provare una storia. La ricerca del teschio di elefante che avrebbe potuto dare l’idea dell’esistenza del Ciclope pone un problema di fondo: si sta seguendo esattamente lo stesso meccanismo del ciarlatano e del truffatore. Si parte da una tesi e la si sostiene senza guardare l’effettiva incidenza delle prove. Si tratta di un problema di metodo profondamente radicato, perché l’eziologia è un nostro modo di ragionare. Denis De Rugemont non vedeva contraddizioni alla sua idea di Dante Cataro, pur ammettendo di non averne la prova provata. Non trovava prove, ma giustificazioni di questa sua fede.
Ciò che è difficile ammettere è che questo modo di procedere a ritroso è altrettanto fantasioso quanto il racconto mitologico; la fantafilologia è una narrazione, un mito, essa stessa. L’unica differenza è che essendo un mito scientista e materialista è estremamente più noioso di quello che la storia ha lasciato sopravvivere. Non per questo ha qualcosa di più provato o realmente scientifico.
Sia chiaro, è vero quello che dice De Rugemont: non abbiamo alcuna certezza che Dante non fosse cataro; lo stesso si può dire della gomena, del ciclope, del cavallo di Troia. Eppure, ci ricorda Chesterton, è più intelligente credere all’impossibile piuttosto che all’improbabile e questo vale doppiamente in un racconto fantastico, dove l’impossibile non esiste. Ed in questi casi è più probabile che la nostra mente eziologica cerchi le prove dell’esistenza del vibranio, piuttosto che provare a immaginarlo.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.