Il ruolo di Haiti nel conflitto culturale

Quando pensiamo ad Haiti, normalmente ci immaginiamo un paese del quarto mondo, ridotto allo stremo da problemi interni e disastri, dilaniato da una guerra civile tra bande e fazioni, un luogo dimenticato da Dio e anche da molti degli uomini.

Chi parla della sua storia, in modo incompleto e frammentario come riportiamo sotto, di solito evidenzia la responsabilità occidentale in questo declino, responsabilità innegabile ma apparentemente immotivata. Non è lo scopo di questo articolo fare revisionismo, ma occorre al suo fine stabilire un punto centrale in tutta la faccenda che, più o meno volutamente, viene dimenticato.

Una storia incompleta di Haiti.

Come fanno notare altri, Haiti era una delle terre più ricche del mondo. Produceva una parte immensa dei prodotti coloniali che venivano esportati in Europa, il tutto grazie ad un uso brutale della schiavitù.

Nel momento in cui esplose la Rivoluzione Francese ci furono dei momenti concitati in cui le diverse fazioni, i bianchi, i neri e i cittadini di colore dovettero decidere il loro posizionamento. In questi momenti concitati e confusi sono molto interessanti i pamphlet di Julien Raimond, cittadino di colore che presenziava a Parigi nel tentativo di rappresentare i suoi compatrioti. Proprio dai suoi scritti apprendiamo la ripartizione della società haitiana: i bianchi sono ovviamente gli europei, tutti proprietari di piantagione; neri è il termine con cui vengono indicati gli schiavi; cittadini di colore sono gli schiavi liberati e i mulatti, spesso proprietari anche loro di piantagioni. Tra le altre cose, Raimond ci testimonia il sospetto da parte dei bianchi nei confronti dei cittadini di colore, che potrebbero aizzare gli schiavi contro di loro per una rivolta su base razziale. Raimond nega assolutamente tale possibilità. Se c’è qualcuno che sta dividendo la società haitiana sono proprio i bianchi con il loro sospetto, nessun cittadino di colore vorrebbe mai cancellare la schiavitù o liberarsi di loro. La “Società degli amici dei Neri” che cita in modo frettoloso, cercando di sminuirne l’importanza, era in realtà l’inizio di uno di questi tentativi che porteranno ad una feroce guerra civile in cui furono coinvolte anche Spagna e Inghilterra. In ogni caso è piuttosto interessante che uno dei primi atti dei commissari francesi inviati ad Haiti fu proprio quello di abolire la schiavitù dopo diverse rivolte di schiavi.

Va notato che i bianchi della colonia pensarono bene di appoggiarsi ai britannici, nella speranza di ripristinare uno stato servile. Vista la disastrosa sconfitta (principalmente ad opera di malattie) di questi, molti dei proprietari di origine europea pensarono bene di tagliare la corda, aspettandosi delle rappresaglie da parte del nuovo stato. Fecero bene.

Finché il potere nella colonia fu in mano ai cittadini di colore (uno fra tutti Toussaint Louverture, a suo modo il vero artefice dell’indipendenza haitiana) fu mantenuto un certo equilibrio, sia nei rapporti con altre nazioni che con la madrepatria che pure si era ritrovata a combattere. Sotto il comando di Louverture Haiti si comportava come una qualsiasi nazione moderna, usando la forza quando era necessario, la diplomazia in tutti gli altri casi. Certo, gli ex schiavi, assetati di vendetta, non erano sempre facili da tenere a bada, ma come un Trasibulo caraibico il generale preferiva guardare avanti piuttosto che scatenare continue faide.

Nel 1802 però Louverture, grazie ad un tradimento, fu catturato dai francesi. Uno dei suoi soldati che avevano contribuito almeno in parte al tradimento prese il suo posto. Quest’uomo non era un cittadino di colore ma un ex-schiavo, noto per la sua brutalità; si chiamava Jean-Jacques Dessalines. Anche lui abile generale, riuscì a sconfiggere i francesi l’anno seguente e proclamare l’indipendenza della colonia di cui si proclamò governatore a vita prima e imperatore dal 1804. Ed è qui che cominciano i veri pasticci.

Uno stato che si proclama indipendente deve avere come primo scopo quello di ingraziarsi i propri vicini; nel caso di Haiti era anche necessario ristabilire pace e concordia all’interno tra le varie fazioni che si erano affrontate fino all’anno precedente. Si possono trovare tutte le giustificazioni che si vogliono a ciò che accadde in seguito: non saranno sufficienti. La brutalità delle truppe francesi e dei piantatori bianchi, il periodo di massacri ideologici in europa conclusosi da poco sotto Robespierre non sono sufficienti a giustificare un genocidio indiscriminato dei bianchi, uomini e donne che non si sottomettevano allo stupro e al matrimonio forzato coi neri. Si può parlare di vendetta necessaria quanto si vuole, invocare i più terribili sospetti di complotto, ma la verità è che Haiti aveva bisogno di un nemico su cui sfogare la sua sete di sangue e lo trovò nei pochi bianchi che erano rimasti.

Ironicamente Dessalines fu ucciso appena due anni dopo, in una rivolta contro il servizio militare e civile (nelle piantagioni, si noti bene) obbligatorio, percepito come una nuova schiavitù. La sua storia però non era ancora finita.

Siamo nel 1893 in Texas, al cospetto di un tale William Edgar Easton. Discendente di rivoluzionari Haitiani da parte di madre, è un membro della sofferente comunità nera degli stati del Sud, cui la liberazione dalla schiavitù ha reso in qualche modo la vita ancora più difficile. Easton è nato e cresciuto al Nord, ha frequentato le scuole in Canada e poi si è trasferito in Texas dove lavora come insegnante e giornalista. A suo modo è uno sradicato, come tanti Statunitensi fino ad oggi, ha dovuto cambiare molte volte non solo casa ma persino Stato, e ha trovato pace (e moglie) solo nella comunità nera che però a sua volta è tutt’altro che ben messa. Manca totalmente di una vera e propria cultura ed è di fatto esclusa da quella dei bianchi, che in ogni caso sta imparando a rifiutare come cultura oppressiva. Easton vuole rimediare.

Il suo tentativo è un’opera teatrale, Dessalines. Nella prefazione dichiara immediatamente il suo scopo:



Vuole essere un’ispirazione per i neri americani, far riscoprire le loro qualità e capacità, restituire loro una fiducia in sé stessi per qualcosa che possiedono già. Easton è convinto che semplicemente le grandi figure nere della storia siano state dimenticate. Per una qualche ragione però inizia subito ad includerci personaggi che di nero avevano ben poco, come Sant’Agostino e Santa Monica. La prefazione segue già un criterio che noi post-moderni chiameremmo di denuncia di appropriazione culturale, non troppo diversa da quei tali che voglio una Cleopatra di colore a tutti i costi perché glielo ha detto la nonna.

La figura di Dessalines d’altra parte si presta benissimo alla narrazione “We were kangz”: è un imperatore, uno schiavo che è fuggito e si è ribellato contro i suoi padroni e li ha sconfitti in guerra, ha costituito la prima repubblica nera del Nuovo Mondo e via così. Un vero esempio di virilità nera come diranno certi manifesti promozionali.

E la brutalità? I massacri? Il tentativo di schiavizzare la popolazione allo Stato invece che a dei semplici padroni? Easton glossa ampiamente a riguardo, preferendo concentrarsi su di una storia d’amore di sua invenzione e su temi religiosi. Non si fa mancare però qualche brano come il seguente:

Questo è un semplice esempio della parte (non troppo lunga) dedicata alla questione sociale che in toto fa venire i brividi. Sia chiaro, è un momento complicato per tutte le varie minoranze negli Stati Uniti che, messe da parte dalla teoria della razza in quanto non sufficientemente teutoniche, stanno cercando di dimostrare il loro valore e la loro forza. Quest’ultima è particolarmente importante in un mondo che ragiona con criteri hegeliani e vede in essa un segno di superiorità spirituale. Prussianesimo, Cristianesimo Muscolare, Futurismo sono solo alcuni esempi di filosofie che abbracciavano in qualche modo quest’idea. I neri, insomma, per dimostrare il loro valore, dovevano in qualche modo dimostrare di essere forti e pericolosi.

Haiti sembrava l’esempio perfetto. Poco contava che avesse una storia sanguinosa e terrificante; poco contava che continuassero massacri su base etnica (non più di bianchi, ma di mulatti); poco contava che tali massacri avessero continuato a minare i rapporti con altre nazioni, tra cui gli Stati Uniti; poco importava che fosse tutt’altro che un bel posto in cui vivere, governata da dittatori autoritari e violenti. D’altra parte, il liberatore dei neri, Abraham Lincoln, era stato tra i primissimi a riconoscerne la realtà come Stato Indipendente, appena 58 anni dopo che era stato proclamato, anni in cui, proprio per brutalità, ferocia, continue guerre civili ed enorme debolezza di fronte alle influenze della madrepatria era rimasta quasi completamente isolata.

In altre parole, Haiti era un mito zoppo, come quasi tutti i miti di quelli che vogliono sostituire l’ideologia alla mitologia. Si poteva fingere che la zoppìa non esistesse, ma questo non aiutava di certo a migliorarla o a contrastarla. Si può lodare tutt’ora Haiti come il primo Stato indipendente nero delle Americhe, qualunque cosa voglia dire; non è di certo un punto a favore degli Stati indipendenti neri.

La coperta sotto cui l’ideologia nasconde le verità scomode è sempre un po’ troppo corta e, in ogni caso, lascia intravedere la loro sagoma. La Verità insomma non è mai davvero in pericolo a causa sua. Lo sono le persone. Nascondere la brutalità di un regime è pericoloso perché quella ferocia si baserà su delle idee e le idee hanno conseguenze, soprattutto quando sono stupide e ideologiche. Questa è la ragione per cui non dobbiamo permettere ai Dessalines di oggi e di ieri di diventare eroi: la storia si ripete quando è incasellata in una mitologia assurda e incompleta, giustificatoria e vittimista come quella di Haiti.

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Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.

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