C’è poco da battere il can per l’aia: il romanzo post moderno non è un’opera di narrativa. La narrazione costituisce una cornice più o meno mediocre per rendere più piacevole il contenuto (che nella maggior parte dei casi sarebbe altrimenti assolutamente insopportabile). E qual è questo contenuto? Normalmente un pensiero, un’idea, un’interpretazione della realtà.
Il romanzo postmoderno insomma non è un romanzo. Si colloca tra il dialogo socratico e il saggio aristotelico, senza poter mai davvero sperare di toccare tali profondità, principalmente perché contiene un solo vero personaggio, il protagonista, che rimugina e rimastica la realtà arrivando nella maggior parte dei casi ad una conclusione cinica (occorre qui una piccola precisazione: per romanzo postmoderno non si intende quello che si presenta al grande pubblico, ma quello che ha velleità colte e letterarie).
Ora, qual è il problema? Se un artista colto e intelligente vuole scrivere in questo modo, che sia giudicato dalla storia e dalla critica e abbia ciò che si merita. E in effetti non ci sarebbe problema alcuno se ci fosse un artista, se fosse colto e se fosse intelligente. Come nella famosa barzelletta sui tre doni di Dio all’uomo, è difficile far entrare più di due caratteristiche in ciascuno. Il romanziere con velleità auliche normalmente manca della parte artistica, o la esaurisce con la sua prima pubblicazione. Cultura e intelligenze da sole di strada ne fanno poca per quanto possano impegnarsi e, a leggere con cura, tante volte pare che manchi anche l’impegno, primo fra tutti l’impegno a comunicare. I romanzi colti, insomma, non sono minimamente scritti per essere letti ma per essere studiati e sottoposti al vaglio arido della critica, che ormai si cura solamente della corrispondenza a criteri astratti, se non proprio inventati su due piedi, principalmente per giustificare le proprie affinità elettive.
Questo già di per sé è un problema. Cosa diventa un’opera letteraria quando abbandona la sua possibilità di comunicare? Cosa diventa l’arte quando non ha più interesse a dire qualcosa ma solo ad essere giudicata di valore? Resta qualcosa oltre ad un esercizio di stile dal sapore prettamente scolastico? Se si vuole la risposta basta leggere qualcuno dei premi strega o suoi candidati, opere che persino i giurati non leggono (e sì, il fatto che un ministro lo abbia ammesso è solo lo svelare un segreto di Pulcinella cui solo uno che si vuol far pensare intelligente può credere), e probabilmente neanche il celebre circolo dei lettori che le seleziona.
La cosa più grave però è che abbandonare la forma narrativa significa rinunciare ad una delle componenti più forti della letteratura stessa. Il modo in cui l’uomo (comune o colto, se il colto ancora ha qualcosa di umano e non è ridotto a macchina il cui scopo è vincere premi letterari) elabora sulla propria esistenza, il modo in cui la comprende e la fa sua, è narrandola. Non è un caso che le opere non narrative finiscano spesso con l’affermare che la vita sia priva di significato, o che il suo significato ci sia incomprensibile o totalmente alieno; il significato è contenuto nel racconto, non nell’osservazione statica di conseguenza occorre una storia per convogliarlo o anche solo comprenderlo.
Possiamo forse perdonare a Goethe di aver scritto una storia incentrata completamente sulle rimuginazioni e osservazioni della realtà del protagonista; io comunque non lo faccio e lo stesso tedesco dovette uccidere Werther proprio per levarsi di torno la sua lagnosa e inutile creazione. Quello però che non possiamo accettare è che tutti i colti scrivano sempre e solo una variazione de “I dolori del giovane Werther”. Possiamo perdonare l’intimismo di un singolo; non possiamo perdonare l’intimismo generalizzato e sbandierato ai quattro venti. Il primo almeno è genuino; il secondo è vanità e vanità di vanità.
Va notato che il Werther aveva comunque un animo nobile e non piegabile. Il suo suicidio è l’apice del “frangar non flectar” senecano. Werther si impone come una figura titanica che la realtà non è davvero in grado di contenere; la sua sconfitta è un atto prometeico. Si può dire la stessa cosa di Sartre, Moravia. Tabucchi, Beckett o Camus? Si può dire la stessa cosa, perdonatemi l’improbo paragone, della Murgia o di Scurati?
Ed è qui che i postmoderni rivelano maggiormente la loro natura di traduttor dei traduttor di Goethe. I loro protagonisti, a differenza di quelli del tedesco molto più vicini ad un autoinserimento nell’opera, presentano la stessa posa titanica, ma non è basata su nulla. Werther è un reietto della società, uno che ha perso tutto e non ha di fatto nulla di ciò che desidera. La sua dimensione è totalmente incommensurabile a quella della realtà sociale e non che lo circonda. Questo può essere benissimo dovuto ad un suo errore di percezione, ma quella percezione è per lo meno reale e convinta, pure in tutta la sua lagna. Il suo suicidio è una grande tragedia, un Romeo e Giulietta in solitaria, ma non si può dire lo stesso dei suoi epigoni. Werther può essere noioso, ma i suoi imitatori sono molto peggio, sono annoiati. Lo strazio è sostituito dall’apatia e tutto si va a perdere. Spiace per Byron ma non c’è nulla di più noioso di un annoiato, una volta che si è scalfita la sua superficie brillante e si è scoperto che al di sotto non cela assolutamente nulla e questo perché è statico, è uno spettatore, un Bartleby lo scrivano de noantri che però manca di tutta la storia che lo ha portato ad essere tale.
In altre parole, il romanzo postmoderno non ha alcuna statura né dimensione: non è commedia, non è tragedia, non è melodramma, non è epica, né null’altro perché in essa l’azione e lo svolgimento sono assolutamente irrilevanti e di conseguenza lo è anche il personaggio.
A nobilitare tutto questo non basta certo uno stile più o meno sostenuto (se poi lo è davvero, la maggior parte degli autori che ho citato sono estremamente scarni e asciutti, senza essere in grado di essere solenni sempre per le ragioni di cui sopra) né l’approvazione di un’elitaria formazione intellettuale che non ha più alcuna ragione di esserlo e sopravvive solo perché i colti sono giacobini solo quando hanno qualcun altro a cui far tagliare le teste.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.