Mi lamento spesso di come la modernità abbia sostanzialmente rinnegato sé stessa e le sue conquiste, in particolare quelle secentesche, colla pretesa di costruire un mondo nuovo e migliore, prima basato sulla ragione e poi sul sentimento e ritengo che il grigiore morale dell’intrattenimento sia una conseguenza di questa realtà. Grigiore morale di cui Ghost of Tsushima è, ahimé, un esempio chiarissimo.
Il gioco è molto ben costruito e curato (sia dal punto di vista grafico che del gameplay), divertente e con una storia interessante: l’isola di Tsushima è invasa dai mongoli ed i samurai sono stati sconfitti; riuscirà Jin a liberare suo zio e scacciarli? A quali mezzi dovrà ricorrere per farlo?
Fin da subito vengono tracciate due strade, una incarnata dalla ladra Yuna, che ha salvato e curato il nostro protagonista, ed una da Shimura-dono, zio di Jin e governatore dell’isola: la prima è disonorevole ma efficace e spiccia, la seconda onorevole ma difficile, se non quasi impossibile. Il gioco, tuttavia, non permette una scelta esclusiva, guidando il giocatore costantemente a scegliere la furtività. Le ragioni sono chiare: un uomo da solo non può affrontare un intero esercito faccia a faccia, soprattutto dato che questo esercito non si fa problemi ad usare tattiche disonorevoli.
Mano a mano l’uso di queste tattiche e la sua innegabile abilità conquistano a Jin la reputazione di spirito vendicativo, tornato dall’aldilà per sconfiggere i mongoli. Evidentemente però essere lo Spettro non basta ancora; così Jin arriva ad avvelenare la guarnigione di un castello per poterlo riconquistare. Al giocatore non è data alcuna scelta a riguardo: se vuole proseguire deve entrare in segreto nel castello e versare il veleno nelle provviste dei mongoli.
A questo punto Shimura pone un aut-aut al nostro protagonista: o essere bandito, o scaricare le sue colpe su Yuna, farla giustiziare, e diventare suo figlio ed erede. E qui comincia il grigiore. Esso è definito da due aspetti principali: in primo luogo la totale irrilevanza delle scelte precedenti; in secondo l’incapacità di definire in modo netto una linea morale.
Partiamo dal primo: tutte le scelte che portano a quel punto sono obbligate. Il giocatore non è posto davanti ad una scelta difficile perché è diventato mano a mano un mostro e, di fatto, un terrorista. Tutte le scelte cattive sono fatte dal gioco al suo posto, lo stesso gioco che poi lo costringe a fare una scelta difficile: uccidere per salvarsi o rischiare la sua pelle. Le scelte singole del giocatore non hanno conseguenze né morali, né reali, il che inquina la storia. Per come viene posta la faccenda, Jin è stato costretto a prendere misure estreme e l’unico modo che ha per non tradire la fiducia che lo zio ha posto in lui è tradire la vita stessa della persona che lo ha salvato. Non è la storia di un uomo buono che è diventato cattivo scendendo mano a mano a compromessi e si trova di fronte alle conseguenze delle sue azioni (conseguenze che, d’altra parte, quando vengono mostrate sono relativamente miti e vanno a malapena a toccarlo personalmente); non è neanche la storia di un uomo che ha l’occasione di redimersi dopo aver fatto il male: l’unica cosa che può redimere è la sua reputazione. A ciò va affiancato il fatto che la gente è in ogni caso con lui; anzi lo diventa sempre di più con il suo disonore. I discorsi dello zio di come l’onore regga la società hanno certamente senso, ma non hanno riscontro reale; anche il duello finale contro di lui lascia l’opzione di risparmiarlo, opzione che non è vanificata da un seguente seppuku o qualcosa di simile. Il fatto che anche i mongoli inizino ad usare il veleno è estremamente irrilevante perché non porta nessuna conseguenza particolarmente grave: aumenta solo un po’ la difficoltà del gioco stesso. Tutto il dilemma ruota attorno ad una scelta tra il proprio orgoglio e l’affetto di una persona ed il bene di tutti. Non è una scelta completa.
Ed è qui che si insinua il secondo aspetto. Opporre onore e disonore, tradizione e terrorismo è quanto meno estremamente riduttivo. Il gioco non si premura particolarmente di approfondire l’esplorazione della questione morale, nonostante tutto il suo terzo atto si basi sulla scelta morale di cui abbiamo parlato sopra. Perché l’arco è onorevole e un kunai no? Qual è il problema dell’uso di uno hwacha? Qual è l’aspetto moralmente sbagliato del creare un terrificante mito di sé con cui terrorizzare i propri nemici? Che cosa cambia davvero da un duello ad un assassinio a sangue freddo? Il gioco non affronta nessuna delle domande e non sa dividere con esattezza ciò che è buono da ciò che è cattivo, perché semplicemente non ha gli strumenti adatti per farlo. La tradizione e l’onore non sono sempre buoni, perché è buono ciò che è buono, non ciò che qualcuno ha deciso che lo sia in un certo momento. Allo stesso modo, è la definizione stessa del male quella di seguire la via più facile e comoda per raggiungere scopi buoni.
Se non fossimo infettati da una glorificazione del partigiano, non esisterebbe neanche il problema. Non ci faremmo minimamente scrupoli sul definire un combattente irregolare pronto ad usare ogni mezzo come terrorista e a rifiutarlo, o per lo meno trasformarlo in un eroe nero e a guardarlo da lontano col timore che possa rivolgersi contro di noi. Le vittorie possono conquistare il favore popolare per un po’, ma a lungo termine è assolutamente impossibile che non si crei delusione, soprattutto quando riguarda cose così estreme, soprattutto quando ci si trova fuori da una realtà di egemonia culturale che pretende di tracciare la linea tra bene e male a seconda dell’appartenenza politica. Ed è qui che, se si scende un attimo più in profondità, il castello di carte inizia a cadere. Il dilemma che è posto al pubblico non è un dilemma giapponese del XIII secolo; a dirla tutta non è più neanche un dilemma nostro del XXI, o almeno c’è da sperare che non lo sia.
Tutta l’inquadratura della realtà di GoT è di fatto quella dell’ideologia novecentesca. I mongoli sono tutti irredimibilmente cattivi, brutali, feroce e spietati, e questa è l’unica giustificazione possibile per le azioni di Jin, di fatto. Ma è davvero una giustificazione? Ci si aspetterebbe che almeno la questione fosse affrontata, ma il conflitto fra il protagonista e lo zio, per quanto portato a compimento, non è davvero approfondito, oppure andrebbe in pezzi. Il dilemma posto dal gioco è assolutamente binario, completamente bianco e nero, e per assurdo l’unico risultato che se ne trae è un grigio nebuloso. La realtà è divisa troppo nettamente in buoni e cattivi perché possa esserlo la morale; anzi, gli scrupoli morali diventano quasi cattivi di fronte all’urgenza dell’azione. In altre parole non è possibile tracciare una propria linea, che tenga conto dello spirito e non della lettera dell’onore, come dello spirito e non della lettera della necessità di agire e questa è una grande occasione persa.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.