Positività tossica, l’entusiasmo che uccide

In seguito a diversi insuccessi nel campo dei videogiochi (in particolare di una compagnia che inizia con la U e finisce con bisoft) si è finalmente iniziato a parlare di “toxic positivity”, argomento assolutamente tabù ma compreso da tutti fino all’altro ieri.

Di che si tratta? Storicamente la positività tossica si può spiegare come l’entusiasmo, più o meno forzato, dei venditori che cercano in ogni modo di farti credere che il prodotto che intendono piazzarti sia assolutamente il migliore sulla piazza. Pure se già dannoso in questo ambito, riusciva abbastanza ad ottenere il suo scopo, assicurare la vendita, per beni che uno compra solo ogni tanto, come ad esempio un’automobile o un’aspirapolvere, di modo che, se anche il prodotto non risulta così straordinario, uno non lo dovrà ricomprare certo a breve e quindi il venditore non ha davvero bisogno di ottenere la fiducia del cliente per più di qualche minuto. Il problema grave è che questa mentalità si è iniziata a diffondere anche al marketing e poi alla produzione ed alla direzione. Numerose compagnie hanno iniziato a credere di essere il meglio dell’industria e di non aver bisogno di buone idee finché potevano spendere più soldi della concorrenza.

La cosa diventa particolarmente pesante e infruttuosa negli ambiti in cui serve creatività come film, videogiochi, libri; ed è qui che mi voglio soffermare.

Il mondo del libro soffre di questa positività tossica da decenni e non è mai riuscito né a comprenderla, né a liberarsi dalla sua terrificante influenza. Osservate le didascalie in quarta di copertina di un qualsiasi libro in una qualsiasi libreria; leggete la recensione di esso su di un qualsiasi giornale; troverete gli stessi termini esageratamente entusiastici e positivi, anche se il libro e l’autore sono mediocri.

Sessant’anni fa’ questa modalità funzionicchiava; con la piena egemonia culturale in mano a pochi intellettuali e delle microegemonie dissidenti e la politicizzazione faziosa di ogni ambito (cosa che grazie al Cielo ora non sta riuscendo più molto) al cattolico interessava leggere un libro cattolico, come al socialista un libro socialista e all’intellettuale un libro intellettuale, non uno buono, valido, intelligente, stimolante o chessoio. Tutti questi aggettivi di fatto avevano perso completamente il loro significato per voler semplicemente indicare la loro aderenza all’idea o ideologia della fazione. Il caso è lo stesso di cui avevo parlato a proposito di Nativity: un film pessimo che però racconta senza troppi pasticci un pezzo del Vangelo.

Ora però sta arrivando il momento in cui non ci fidiamo più delle recensioni entusiastiche, perché essendole tutte, non la è nessuna. Non ce la facciamo più a sorbirci Il padrone del mondo di Benson solo perché cattolico; siamo stanchi dell’immensa quantità di libri che ci insegnano ad essere ciò che già siamo senza aggiungere nulla di più; non ci importa più nulla dello schierarci. Abbiamo bisogno di storie che siano buone storie, di essere ammaestrati dalla realtà, non dal partito, dalla fazione, dall’ideologo di turno. E dunque abbiamo bisogno di recensioni che non ci dicano quanto è bello un libro ma cosa contiene e cosa pretende di insegnare e quanto ci riesce, il resto è nulla e vuoto e tenebre sulla faccia dell’abisso.

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Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.

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