Pentland Corn e la dipendenza

Il lavoro scientifico sulla dipendenza è per lo più roba recente, innescata dal picco del consumo di droghe pesanti dagli anni ’60 in poi. Certo, già da fine ‘800, con la diffusione del movimento proibizionista, la questione era esplosa nel dibattito pubblico e nei salotti vittoriani ma, oserei dire, era stata tutt’altro che affrontata.

Il vittoriano vedeva il vizio come una questione moralistica derivante da uno sforzo di volontà, cosa che portava alla proibizione come unica possibile via di fuga. Come sempre per i puritani la soluzione al male era l’innocenza, non la redenzione. Non essere buoni, ma non aver mai incontrato il problema.

La cosa è interessante perché in precedenza il concetto di vizio era stato elaborato da filosofi ed eruditi in modo forse amatoriale ma non così lontano dal segno verso cui ci portano le ricerche più scientifiche. Ed è accedendo a queste che ad inizio ‘900, un prolifico scrittore neozelandese, Fergus Hume, tira fuori il personaggio di Pentland Corn.

Quando compare ne Il proiettile d’argento è solo un nervoso curato di campagna, preoccupato per l’omicidio appena avvenuto. Ma è davvero così? Il fatto è che il reverendo Corn nasconde, a dirla tutta non troppo bene, un segreto.

La raffinata, pure se leggera, descrizione psicologica di Hume è perfettamente attinente a quello che sappiamo oggi della dipendenza. C’è un trauma scatenante, una mentalità autodistruttiva, un riemergere del vizio durante i periodi di quiete e debolezza, il forte senso di vergogna e autocommiserazione che distrugge ogni energia per uscire dal ciclo del vizio.

Hume, forse partendo da una persona reale conosciuta, a giudicare dalla vividezza del suo tratto, sembra aver compreso quello che molti suoi contemporanei non arrivavano ad afferrare: il problema della dipendenza non è uno di cattiveria, ma di debolezza e autodistruzione. Corn non è in grado di rinunciare al suo vizio non tanto perché non ne ha la capacità, ma perché pensa di essere già dannato. La sua debolezza è per lo più autoinflitta e si conferma e, per così dire, rafforza ogni volta che cade.

In altre parole, Pentland Corn è convinto di essere debole; è convinto di non potercela fare. Senso di colpa e di vergogna lo schiacciano a tal punto che l’unico modo che ha per sottrarsi al vizio è distrarsi, ma la cosa non gli riesce troppo bene, troppo a lungo. Come sappiamo oggi, infatti, il nucleo della dipendenza, soprattutto di quella psicologica come quella del nostro personaggio, non è il piacere dell’atto. Allo stesso tempo, la soluzione non è la semplice astinenza. Funziona un po’ per le dipendenze chimiche, ma anche lì sono la mente e lo spirito che giocano la parte principale.

Il dipendente, infatti, è convinto di avere un assoluto bisogno del suo vizio e di non essere in grado di sopravvivere altrimenti, per quanto la cosa possa essere ignominosa o sbagliata. La dipendenza può nascere o meno da un trauma, ma di certo viene fuori da uno stato di disagio così terrificante che la fuga sembra l’unica opzione possibile. Vergogna e senso di colpa poi contribuiscono tremendamente. La storia dell’ubriacone del Piccolo Principe che beve per dimenticare che si vergogna di bere è quanto mai puntuale, per quanto possa sembrare un paradosso. Pentland Corn non è diverso in un certo senso. La sua fuga continua dal suo trauma è anche fuga dalla debolezza che origina il suo vizio. Il suo senso di sé, d’altra parte, è assolutamente annientato; si potrebbe quasi dire che l’unica coscienza di sé che si permette è quella del suo trauma e della sua dipendenza. La sua personalità è totalmente annientata e ridotta ad una larva da questa autocoscienza devastante.

Il vero problema di Pentland Corn, in ultimo, è il suo essere debole. Ma ogni volta che lo ammette e lo ripete si abbatte ulteriormente, si indebolisce ancora di più. Non crede di poter affrontare né trauma, né vizio, né da solo, né con un aiuto esterno e questo non solo lo distrugge ma lo mette in mano a persone pericolose, alle quali basta conoscere il suo segreto per tenerlo in pugno anima e corpo. In poche parole, il senso di colpa e di vergogna non fanno che spingerlo sempre di più alla fuga, affondarlo sempre di più nel vizio.

Questo può sembrare normale nell’ipocrisia edoardiana, ma quell’ipocrisia e quel moralismo non ci hanno mai lasciati. Il modo in cui vogliamo aiutare persone avviluppate nelle reti della dipendenza è forse comprensivo, all’inizio, ma sempre carico di giudizio e ferocia. Pretendiamo che si rendano conto di essere dei miserabili, sperando che questo li faccia rialzare, ma essi lo sanno benissimo. Quello che non sanno è che possono uscirne. La nostra concezione della morale e di una vita virtuosa ruota sempre e solo attorno ad uno sforzo di volontà che è l’esatto contrario di quello di cui abbiamo realmente bisogno di essere buoni: ovvero di essere forti, integri, ben costruiti. Ed è qui che possiamo imparare la vera compassione, che possiamo davvero amare qualcuno per quello che potrebbe essere e non per quello che non è. Non imponendo uno standard ma svolgendo un cammino. L’unica domanda che sorge, però, è: noi siamo ben costruiti? Oppure abbiamo semplicemente trovato modi socialmente accettabili di schivare i problemi, di chiuderci in una casetta di nulla in cui niente può toccarci?

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Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.

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