Chi ha studiato filosofia sul manuale sa cos’è la maieutica: l’arte di far partorire la verità. Socrate afferma nel Teeteto che lui come un’ostetrica (lo era sua madre) non ha interesse a portare una verità ma a farla partorire. Si tratta di una bella promessa e un bel sogno: non serve una lezione frontale ma una capacità di far emergere con le giuste domande il vero. Non è un’imposizione dell’autorità, ma il trasformare il discente in un’autorità per sé stesso.
La domanda però che dovrebbe sorgere immediatemente spontanea è: questa promessa viene mantenuta? O, ancora di più, è mantenibile?
Secondo il pensiero platonico (è il Socrate di Platone che parla, non quello di Senofonte) la maieutica può avvenire perché l’anima umana possiede già la conoscenza che gli serve, l’ha solo dimenticata reincarnandosi. La maieutica è quindi una sorta di percorso di ascesi personale aiutata da qualcuno che è già iniziato (sì, l’Accademia Platonica aveva forti elementi iniziatici). Per ammetterla occorre ammettere la metempsicosi (reincarnazione platonica per quelli ancora sani di mente) e questo ci crea due problemi: in primo luogo non abbiamo modo di dimostrare la metempsicosi, neanche ad un semplice livello di certezza morale; si tratta di una credenza di pura fede, che uno sceglie perché gli piace e la trova convincente per ragioni puramente emotive. Non c’è nulla di male in questo, ma trasforma la cosa in un poderoso salto nel vuoto, semplicemente per poter sostenere un metodo di insegnamento la cui efficacia tralaltro non è dimostrata a sua volta. C’è però un secondo problema: non basta ammettere la metempsicosi, ma occorre ammettere che questa conoscenza sepolta nell’animo umano possa in qualche modo riemergere. Platone non ci dice davvero come.
Secondo lui la prova che succede è semplicemente che impariamo a conoscere in un modo più perfetto di quello che ci può essere prodotto solo dal mondo sensibile. Questo è anche la prova della metafisica e del fatto che noi possediamo (o siamo) qualcosa di metafisico, che è l’anima. Ora la domanda che possiamo porci da gente che ha perlomeno sentito parlare di Guglielmo di Occam è: è davvero necessario, una volta postulata l’anima, postulare che essa abbia vissuto innumerevoli vite solo per rendere conto della sua capacità di conoscere? Anche se ammettiamo che la struttura della nostra conoscenza sia almeno parzialmente innata, è davvero necessario postulare altro dal fatto che semplicemente la struttura dell’anima è fatta così?
Ancora: se anche ponessimo la fonte della conoscenza come completamente metafisica e derivata da una sola incarnazione, è davvero necessario porre l’incarnazione stessa come sua dimenticanza?
Il continuo utilizzo di miti da parte di Platone, invece di una strutturazione teorica chiara, ci costringe a rimanere senza risposta su come funziona esattamente la sua struttura metafisica e tra metafisico e fisico. La questione della maieutica a livello metafisico resta per lo meno confusa e complicata.
Ma è poi vero che la promessa è stata mantenuta? Il Socrate platonico davvero fa emergere la verità dai suoi interlocutori? La risposta è sì e no. Se ci premuriamo a leggere davvero qualche dialogo, noteremo una struttura ricorrente: c’è un’introduzione che serve a mettere a fuoco gli interlocutori ed argomento, facendo di fatto da cornice; gli interlocutori espongono le loro teorie e Socrate pone loro delle domande costringendoli a svelarne contraddizioni e punti deboli; gli interlocutori si dichiarano più o meno battuti e invitano Socrate ad esporre le sue idee; Socrate inizia uno spiegone chilometrico interrotto solo dai “sì” e dagli “è così” dei suoi interlocutori.
Non si può negare che Socrate usi la maieutica come pars destruens del suo discorso. Anche se le sue domande non sono sempre ingenue e in buona fede (questo vale in particolare per i primi dialoghi, ed è estremamente evidente nel Gorgia), colgono sempre nel segno e mostrano i punti deboli del discorso avversario, costringendolo alla resa. Spesso è una resa affrettata e, viene da sospettare, per sfinimento; se il vero Socrate è davvero quello descritto da Platone, a volte viene il dubbio che la discussione non si sia risolta nella realtà con un poderoso pugno sul naso.
Quando però si arriva alla pars construens, la faccenda si complica; se volessimo sostenere che questa sia maieutica, ci vorrebbero una buona quantità di ventose per arrampicarci su specchi coperti degli olii più sdrucciolevoli. Chiedere “Non è così?” alla fine di pagine e pagine di trattazione non è di certo far emergere la verità dall’altro.
L’apice di tutto questo però sta nel fatto che Socrate non è mai sottoposto alla sua stessa medicina. Per essere uno che afferma di non sapere ha sicuramente una capacità di esporre quello che non sa in modo estremamente sistematico e dettagliato, contornandolo di miti quando (non) necessario. E se certamente è l’ignorante più sapiente del mondo, è ancora più incontrastato. Le domande che gli vengono poste non sono mai per metterlo in difficoltà, come ci si aspetterebbe da degli avversari con idee completamente diverse, ma per chiedere spiegazioni. I punti deboli del suo pensiero, anche quando il lettore li nota, pare siano inesorabilmente imperscrutabili a quelli che cercano di contrastarlo. Anche quelle domande che potrebbero sembrare più cattive, finiscono solo coll’essere espedienti per esplicare ulteriormente il suo pensiero. Socrate non è mai davvero un’ostetrica; è un maestro che risponde alle domande più o meno puntute dei suoi allievi.
Se dobbiamo tirare le somme, Socrate riesce ad usare la maieutica solo per smontare le teorie dei suoi avversari. Dice di fare diversamente, ma la sua maieutica svanisce completamente quando deve mostrare ciò che ritiene vero. Ancora di più, Socrate stesso non è mai sottoposto ad un processo maieutico a sua volta. In altre parole il Socrate platonico in fin dei conti non è neanche uno che sa di non sapere; all’interno dei suoi dialoghi non ha davvero l’umiltà dell’ignorante più sapiente del mondo, ma piuttosto la sicurezza di chi sa bene quello che dice, sicurezza che non viene mai concessa ai suoi avversari, neanche per fargli notare problemi del suo sistemino.
Alla fine di tutta questa lunga e pallosissima analisi, resta una cosa: se si vuole vedere qualcosa che somiglia alla maieutica, non bisogna andare a leggere i dialoghi platonici, ma quelli ciceroniani, dove davvero tutti gli interlocutori contribuiscono ad arrivare ad una conclusione ed alla verità. Anche qui però si tratta più di un rifinire i dettagli o ampliare il discorso, più che di far emergere qualcosa. D’altra parte lo stesso Platone (nella lettera VII) ci dice che la sua filosofia non sta nei suoi scritti, il che per noi vuol dire che non sta da nessuna parte e di conseguenza vale lo stesso per la maieutica, per la pace di chi ancora la sogna.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.