La filosofia è ormai ad appannaggio della scuola, una delle sue propaggini quali la poesia, l’algebra, la geografia… Per molti, insomma, è qualcosa che riguarda l’istituzione scolastica e trova fine nella propagazione della scuola come istituzione. Non si è quasi più abituati a considerare la filosofia come qualcosa che attiene alla nostra vita, come sostegno alla nostra quotidiana esistenza: che aiuta a riflettere sul nostro essere ed esserci. Oggi, invece, mentre vige l’esercizio del commento e del dibattimento indefesso, è proprio nella filosofia che possiamo trovare alcuni dei pensieri più ficcanti per ragionare sulla nostra condizione.
Mi riferisco, ad esempio, alle ripetute riflessioni dedicate al tema della pandemia da Giorgio Agamben – rintracciabili sul sito dell’editore Quodlibet -, e a questo pamphlet di Matteo Bergamaschi (torinese, docente di filosofia in licei e nella Pontificia Università Salesiana), Inventare il presente. La catastrofe, la morte e l’attesa ai tempi del coronavirus.
Nel libro appena uscito per il sodalizio editoriale Schegge Riunite, si ragiona sul nostro tempo e la nostra condizione a partire da tre parole che scandiscono i tre calvinamente leggeri capitoletti.
Il primo dei quali è dedicato alla “catastrofe”, la fine del mondo; in particolare la riflessione pone il problema, intrinseco alla società moderna, di come si sia andato sempre più ad elidere il concetto di morte: “È curioso, la storia contemporanea non può fare a meno di cimentarsi con la questione della fine: la possibilità della fine del mondo sembra un significato che tendiamo a rimuovere”. In questo tempo, però, così assillati dalla questione della morte possiamo ritornare a riflettere sulla nostra vita, e sul discrimine tra la vita come semplice zoé, sussistenza, e bios, la vita nella piena e artificiosa accezione umana.
Il secondo capitoletto approfondisce la “Morte” e l’eccesso di godimento: si riconsidera quello che fu lo stato dell’uomo prima di costituirsi nella polis, lo stato di natura precedente secondo la visione delle differenti correnti filosofiche, per poter concepire il modo in cui ritrovare, nell’oggi, una nuova modalità per essere civili: di essere partecipi alla società: alla polis.
La terza parte, “L’attesa. Il bene dell’altro”, prosegue il discorso intorno alla morte, alla nostra labilità intrinseca di uomini. La morte viene vista come l’altro in assoluto – nel paradosso di appartenere alla nostra vita quanto il nascere -, la cui attesa ci impone di uscire dal “nostro mondo” verso un inaspettato “in cui fare esperienza della propria finitudine”. Ma è proprio nel nostro limite, ci viene detto, che si offre occasione per l’incontro con l’altro in cui si insinua la possibilità dell’in-atteso.
In questa quotidianità altra ecco l’esigenza di “costruire il quotidiano” per come lo intendeva Michel de Certeau, non assecondandola ma trovando il modo di attuare strategie, pratiche, altre da quelle imposte, così da riappropriarsi di quel bios richiamato all’inizio.
Costruire un senso nel nostro tempo, fare, come in poesia, del limite impostoci una dimensione in cui costruire la propria unicità, la propria vita. Poiché – forse – come nella poesia di Borges citata in chiusura: “Queste persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo”.
In questa fase di gnosticismo cibernetico, per trovare il pamphlet, bisogna accontentarsi della versione in ebook o pdf – si trova su StreetLib.com, gratuitamente -; l’unico prezzo che chiede è il tempo che si decide di dedicarle.