“Tutto il mondo moderno si è diviso in conservatori e progressisti. L’attività dei progressisti è quella di continuare a fare errori. L’attività dei conservatori è quella di evitare che gli errori siano corretti”.
Gilbert Keith Chesterton, da Illustrated London News, 19 Aprile 1924
Il postmodernismo, e di conseguenza l’egemonia culturale, si configura come una propaganda da regime totalitario, senza però che ci sia un’ideologia di base.
Quello che conta non è cosa si pensa ma da che parte si sta. L’egemonia non è venuta meno, ma negli anni ha cambiato completamente le idee di riferimento. I ruoli però li ha mantenuti.
I ruoli principali sono appunto quelli di conservatore e di progressista. Entrambi si credono buoni per l’appartenenza allo schieramento e non perché facciano o non facciano cose intelligenti. Il conservatore viene accusato di immobilismo, ma non può fare altro, perché viene continuamente inondato dal progressista di stupidaggini il cui unico valore è di essere nuove. Il progressista è accusato di essere sciocco ed immorale, ma non può essere diverso, perché il conservatore è davvero immobile, non tanto come un muro, ma come una porta murata, attraverso cui non passano le risorse necessarie al progressista per poter costruire.
Il conservatore conserva e non può fare altro. Basta che qualcosa diventi abbastanza “normale” e lui lo conserva. Non ha coscienza di cosa sia la tradizione, di cosa siano le credenze o tutto. Non riconquista ciò che ha ereditato, ergo non fa cultura. Si indignerà per Starbucks, ma sentirà un vuoto se gli chiude il McDonald’s a cui è andato un paio di volte, perché una volta che qualcosa è penetrato in quella porta, non deve più uscire.
I progressisti invece hanno come unico scopo quello di fare qualcosa di nuovo. Non conta troppo che sia duraturo o buono, ma che debba passare per quella porta. Se si rifiuta però tutto ciò che è passato, non si ha alcuna base su cui costruire, e questo è particolarmente evidente nei prodotti culturali. Finché si tratta di scienza o tecnologia, il progressista può tranquillamente ignorare che il libro su cui ha studiato è una cosa del passato, alle volte persino che è un libro. Oltretutto il suo maestro appartiene con tutta probabilità alla stessa specie d’uomo, senza rimpianti. Quando invece si inizia ad inoltrarsi nelle arti liberali, non si può fare a meno della tradizione, fosse anche solo per rifiutarla. Al critico occorre dire il perché il passato fosse sbagliato, o sia pure giusto, non basta dire che è passato.
Ricordo di un giovane pavon-filologo in treno che si lamentava che l’approccio dei suoi professori alla sua tesi era troppo “vecchio”. La cosa divenne piuttosto comica quando si scoprì che era sui petrarchisti, non solo perché la sua interlocutrice, un’affascinantissima psicologa, non aveva la minima idea che Petrarca e i suoi epigoni fossero enti separati, o perché non aveva idea di come collocarli temporalmente, ma perché la reazione del filologo di fronte a queste due occorrenze fu piuttosto imbarazzata. Una cosa che uno studente universitario farà sempre fatica ad ammettere non è tanto di avere un maestro, ma che quello che il suo maestro gli ha insegnato non è poi così utile a scopare; ma una cosa che farà ancora più fatica ad ammettere è che farebbe fatica a scopare con chi non ha idea di quello che gli è stato insegnato.
Fuor di bruta metafora, il passato per il letterato o per un suo affine ha un valore anche quando è vecchio, e quando lo trova fastidioso, ed è un valore maggiore di quello del beneficio immediato che può trarre dalla prima Gezabele che si ritrova davanti. Per assurdo, però, può avere questo pensiero solo quando si parla del suo ambito specifico; in tutto il resto deve essere nuovo, fiammante, in questo postmoderno futurismo d’accatto; in tutto il resto, dovrà adeguarsi alla mandria informe degli occupatori di scuole, imbrattatori d’arte, libertini bigotti e mangiatori d’insetti; in tutto il resto, insomma, non potrà avere idee, perché le idee si fondano sulla realtà, ovvero su ciò che è o è stato, mentre le sciocchezze progressiste si fondano sul nulla, ovvero su ciò che non è stato mai.
Questo terzo profilo che sto tracciando, quello dell’uomo di idee, non si può ridurre all’essere del passato o del futuro. Non è uno che si limita a conservare con lo spirito del collezionista qualsiasi cosa abbia superato la prova degli anni, quale che sia lo stato in cui si ritrova; né uno che continua a fare cose nuove, quali che siano. Le idee non puzzano di stantio; se sono passate di moda, è perché qualcosa in loro non ha funzionato. L’idealizzazione del passato è troppo costrittiva per il pensiero, così come quella del futuro è troppo vuota per la ragione. L’uomo di idee è un uomo del presente, ma non semplicemente dell’istante; forse sarebbe più corretto che è un uomo che vive nel tempo, che punta al futuro costruendo nel presente sulle fondamenta del passato. Quest’ultimo non non viene rifiutato ma accettato o confutato dove serve. Il primo non è concepito come la fuga dal male del momento, ma come il punto a cui deve arrivare ciò che si è iniziato a fare. L’uomo di idee è un vero creativo perché sa che le idee sono creature del tempo e come tali si comportano; sa che hanno padri e figli, sa che hanno uno sviluppo e una storia.
Questo è l’uomo che ci occorre. Non un fossile, né un pazzo che libera i pesci dalle loro bocce, ci occorre l’uomo di idee che è anche l’uomo d’azione. Abbiamo sì bisogno di qualcuno che conservi, ma che conservi il buono e lasci correre il resto; abbiamo bisogno sì di qualcuno che innovi, ma che lo faccia dentro il recinto del buonsenso.
Insomma, ci occorre di star fuori da questa dicotomia, da questi ruoli ritagliati da una realtà che non vuole che le cose cambino, e soprattutto che cambi la struttura di potere. Perché l’egemonia vuol mantenere le cose immobili, e fingere che il brulicare delle creature sui cadaveri sia la vita, il che è esattamente ciò che rispettivamente conservatorismo e progressismo finiscono col diventare sotto la sua ala.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.