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Come (non) scrivere un finale pigro

È sempre più raro vedere nella narrativa vedere della scrittura soddisfacente, dove i risultati sono frutto di una costruzione coerente e ponderata. O forse è sempre stato raro, ma una volta le dime novels (romanzi da quattro soldi) restavano tali e non assurgevano fino a diventare il libro o il film del momento.


Resta che la mediocrità regna, e che tale mediocrità è composta di molti elementi, il principale dei quali è il finale. Che si tratti di lieto fine o tragico, esso deve essere guadagnato, in qualche modo, sia dai personaggi che da chi scrive. Questo significa che deve essere soddisfacente e rendere conto di tutte le speranze e le premesse che sono state messe in campo fino a quel momento.


Un cattivo finale può rovinare un ottimo libro, come nel caso de “La veste d’amianto“. La storia va piano piano a dipingere la figura di Ettore Noris come un uomo inflessibile, lacerato da un amore finito in tragedia in passato, e del tutto dedito all’aviazione, perché l’unica cosa che gli resta è rischiare la vita nel modo più eroico possibile. Viene ribadito più volte che, pur avendo considerato il suicidio, non è stato in grado di commetterlo. La storia lascia intendere che non è stato per vigliaccheria, ma che, una volta perso l’amore della donna che amava, gli è restato solo quello per l’avventura, il pericolo, l’aviazione. Noris è costruito come un eroe tragico fino a che non incontra Minerva, una gelida e altera ragazza appassionata di aviazione che gli chiede lezioni. Lui la istruisce e lei scopre il suo segreto. Mano a mano i due si inteneriscono. Il percorso di Noris viene totalmente convertito: l’eroe tragico, dotato di un’armatura che lo protegge dalle debolezze emotive umane, in realtà ha semplicemente trovato una persona altrettanto grande e avventurosa quanto lui. Minerva è a sua volta dinamica e in cerca di grandi imprese ed è toccata dalla statura morale e gloriosa del suo insegnante. Il romanzo lascia intendere che sono davvero fatti l’uno per l’altra e che non si travolgeranno perché fra di loro possono davvero duellare per tutta la vita.

A questo punto arriva il finale più pigro e scontato possibile, un finale alla Romeo e Giulietta in cui i due cedono e superano l’ostacolo che li separava per poi morire insieme volontariamente.
L’amaro in bocca che lascia l’ultima pagina non è quello di una grande tragedia, per il semplice fatto che non è guadagnato. È il finale di un’altra storia che ci è stato appiccicato sopra per produrre un impatto emotivo forte, dato anche dalla sorpresa.

Nel romanzo però viene messo in chiaro più volte che Noris cerca la morte solo nelle sue imprese aviatorie; che il suicidio non lo attira; il fatto che questo avvenga tramite uno schianto aereo rende solo ancora più pigro l’espediente narrativo e il finale. È letteralmente una retcon del personaggi con qualche elemento estetico mantenuto. D’altra parte Minerva è piena di vita nonostante la sua freddezza nei confronti degli uomini; è sempre alle feste, guida l’automobile, vuole imparare a guidare l’aereo. È una sorta di potenza della natura inarrestabile. È possibile che una volta conosciuto l’amore e capito di essere ricambiata voglia morire? È possibile che Noris, dopo non essersi ucciso dopo aver visto morire la sua donna ed essersi votato al ricordo di lei, voglia uccidersi quando ha trovato finalmente una donna alla sua altezza e in grado di resistere alla potenza travolgente del suo desiderio di avventura?
Quel che è peggio, però, è che quello che trattiene i due amanti dallo stare insieme sono letteralmente i difetti che tutto il romanzo cura in loro.
Il limite di Noris è la sua anaffettività dovuta al fatto che la sua prima amata è morta perché debole di cuore e incapace di vederlo rischiare la vita; Minerva è esattamente la donna che non lo metterà in questa situazione. Il limite di Minerva è la sua alterigia che la porta a preferire l’avventura all’amore; con Noris non ha la necessità di scegliere.

L’anaffettività di entrambi è di fatto curata dalla loro relazione che cresce mano a mano silenziosa fino a rendersi esplicita. E qui si arriva alla pigrizia somma: il loro amore sarebbe estremamente interessante da veder sviluppare. I loro amici li credevano ormai persi a riguardo, alteri e su un piano dell’esistenza altro, fino al punto da non potersi piegare a provare qualcosa di umano per qualcuno di umano. Come li vedrebbero ora? Un dio e la sua paredra in un inframondo? O due persone che fino a quel momento non si erano trovate?
Il rifiuto di una felicità duratura in questo caso sarebbe comprensibile solo in virtù dell’attaccarsi ad un vecchio sé e ad un’immagine di sé che si era proiettata sugli altri e non si vuole mettere in discussione. È sciocco, e i nostri due personaggi non vengono dipinti come tali; anzi, ci viene detto che la loro fama di celibi non li tocca minimamente, non si capisce perché dovrebbe toccarli quella di accoppiati.


Il fatto è che qui un lieto fine sarebbe quello per cui tutto è stato costruito. Potrebbe anche starci un finale tragico in cui sono separati dal destino, o uno dei due muore in un’impresa. Invece ci viene data una via di mezzo in cui i due si amano ma muoiono insieme nello stesso istante, di immediato impatto emotivo, ma utile solo a far spargere qualche lacrima ad una liceale. È un modo per tentare di fingere una serietà e mantenere la questione amorosa, il tutto però mandando totalmente a vuoto quello che è lo sviluppo dei personaggi e il messaggio del libro, che fino all’ultima pagina era davvero ben scritto.

Ma allora come si costruisce un buon finale?
Partiamo dal finale tragico. Come già detto, la fine della storia deve essere in qualche modo meritata dai personaggi e dalla narrazione stessa. L’eroe tragico si trova in una situazione da cui non può uscire vincitore o può farlo solo rinunciando a qualcosa che ritiene importante. L’Ercole di Euripide, indotto alla pazzia dagli, si ritrova ad uccidere i figli che ha appena salvato. Qui il finale è meritato anche se la storia viene totalmente sovvertita. Ercole infatti deve poi fare i conti con quello che ha fatto, pure involontariamente; Euripide è particolarmente geniale nel mettergli accanto la figura di Teseo che lo conforta da amico e lo spinge ad andare avanti nonostante tutto. La tragedia finisce e lo spettatore si alza alleggerito: la catarsi ha funzionato perché non è stato scelto un finale comodo. Ercole soffre, lo spettatore soffre con lui immedesimandosi e il conforto di Teseo vale per entrambi. D’altra parte era già stato stabilito in precedenza che Ercole aveva salvato Teseo, ed è naturale che questi mostri la sua gratitudine e restituisca il favore.

In Sorella di Messalina invece un uomo dopo esser stato a lungo manipolato da una donna, decide di farla finita. Di nuovo, il finale è meritato ed è stato ben costruito. La donna ha ribadito più volte che chi la ama muore o finisce, usando la sua solitudine come ricatto emotivo nei confronti del protagonista. Questi doveva scegliere subito tra la vita e la morte, e ha scelto quest’ultima nelle primissime pagine. Tutto il resto del libro è solo attesa di questo momento e contemplazione delle raffinate torture psicologiche della donna. Il lettore chiude il libro e sa come riconoscere questa malvagità e sa che deve fuggirla il prima possibile: catarsi compiuta, insegnamento appreso, il tutto perché le premesse sono state seguite da dei frutti adeguati. Se fosse riuscito a cambiarla pur essendo sotto continua manipolazione, o se avesse spinto lei a morire o ucciso lei, la cosa non sarebbe stata per niente soddisfacente, anche se l’impatto emotivo sarebbe stato lì per lì maggiore.


È interessante perché il Tasso nella Gerusalemme Liberata mette una vicenda simile (con qualche differenza che cambia tutto) nella storia di Rinaldo e Armida. Quest’ultima rapisce il primo e lo tiene sulla sua isola manipolandolo. Due amici vanno a salvarlo e lo riportano a combattere; lei si schiera dalla parte dei nemici per avere vendetta, ma i suoi propositi si infrangono contro l’armatura del cavaliere e fugge inseguita da lui fino ad abbandonarglisi fra le braccia, arrendendosi a lui e all’amore che c’è fra loro.


Qui però Armida è davvero innamorata, non una donna capricciosa che si prende degli uomini per sentirsi importante, e soprattutto c’è l’intervento dei due amici “pomposamente armati”. Rinaldo, d’altra parte, è forte e conosce il suo valore. Nel momento in cui vede l’effemminatezza a cui lo ha ridotto la sua amante pur di tenerlo con lei, si alza e torna sé stesso: vuole essere amato per quello che è, non come una bambola per la vanità di lei.

Di nuovo, il finale di questa vicenda è coerente: il “pomposamente armati” è quello che permette a Rinaldo di vedere chi è in quel momento e chi dovrebbe essere. Gli amici gli dicono che prima di essere cavaliere di una donna bisogna essere cavaliere di Cristo e così accade: Rinaldo, rinunciando al piacere immediato e tornando a combattere, ottiene di essere cavaliere di entrambi.

Il punto centrale di ognuno di questi finali è la coerenza. La fine di una storia deve esserne il compimento, in una direzione o nell’altra; può lasciare l’amaro in bocca o riempire di gioia, ma non può lasciare insoddisfazione. Persino un finale aperto deve tracciare questa linea, concludere il percorso dei protagonisti e poi permettere loro ulteriore spazio di azione.

I finali pigri sacrificano tutto questo in cambio di una moralina appiccicata o di un forte impatto emotivo; a questo punto però viene da chiedersi a che serve concludere in toto. Si può interrompere una storia in qualsiasi momento rilevante e ottenere lo stesso risultato.

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Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.

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