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Tre modi di fare horror

Il genere horror è uno dei più diffusi e amati al giorno d’oggi, pur con tutte le sue varianti e possibilità. Se per ambientazione e stile le possibilità sono sostanzialmente infinite, invece le tecniche per suscitare angoscia e raccapriccio sono più limitate. Qui intendiamo concentrarci principalmente su tre di queste.

La tecnica più frequente, nonché quella probabilmente più antica, è quella dell’ironia tragica. Per usare questa modalità occorre informare il lettore che qualcosa di oscuro e malvagio è all’opera, ma lasciarne totalmente o parzialmente ignari i personaggi. Si tratta della tecnica più semplice e più usata, soprattutto nei film. In questo caso la tensione si crea sul fatto che il lettore sa esattamente cosa aspettarsi, intuisce quello che sta per accadere, ma non ha modo di impedire il corso degli eventi verso cui quasi inevitabilmente i personaggi si dirigono. Semplice ed efficace, non richiede una particolare arte per essere utilizzata, permettendo a chi scrive di concentrarsi su altri aspetti della storia, mentre la tensione si accresce da sé. Deve probabilmente anche a questo fatto la sua grande fortuna dalla prima tragedia greca fino all’horror moderno.

Il principe della letteratura orrorifica però non la apprezzava e preferiva dedicarsi a tutt’altro metodo. Più che dedicarsi al rapporto tra ciò che sa il lettore e ciò che conosce il personaggio, ad H.P. Lovecraft interessava concentrarsi sulla natura del male che questi si trovavano ad affrontare. Nei suoi racconti descrive un orrore metafisico e inarrestabile, incommensurabile rispetto all’uomo. La sensazione che il lettore e il protagonista condividono è quella di una potenza a cui non sono in grado di resistere, e l’unica cosa che resta da fare è attendere che li schiacci. La ripetizione continua e ossessiva di termini che rimandano ad un male superiore chiude in una gabbia in cui l’unica via d’uscita è la fine del racconto e l’assoggettamento della volontà o della vita stessa dei personaggi. L’horror qui si fonda sulla sensazione di precarietà e impotenza che viene costantemente rilanciata, quasi a dire che non esiste alcuna speranza, solo la possibilità di rimandare l’inevitabile un altro poco. Si tratta di una tecnica meno semplice e che richiede più impegno, andando a influenzare la struttura e la narrazione stessa del racconto; una volta che la si sceglie non si può tornare indietro e interromperla vuol dire creare un pasticcio poco funzionante. La cosa più rilevante però sono lo stile e la scelta del lessico che devono orientarsi in tutto e per tutto a riprodurre questa sensazione oppressiva e claustrofobica.

Attraverso quegli arcaici affreschi si snodavano le cronache di Leng; con i quasi-umani muniti di corna e zoccoli e di quella bocca larga che danzavano malvagiamente in mezzo a città dimenticate. C’erano scene di antiche guerre, in cui i quasi-umani di Leng combatterono contro i gonfi ragni viola delle valli limitrofe; e c’erano anche scene della venuta delle galee nere dalla luna, e della sottomissione del popolo di Leng alle polipose ed informi blasfemie che balzarono, si dibatterono e si contorsero fuori da esse. E quelle viscide e bianco-grigiastre blasfemie essi le adorarono come dei, né si lamentarono quando decine dei loro migliori e più robusti maschi vennero portati via su quelle galee nere. Le mostruose bestie lunari si accamparono poi su un’isola frastagliata nel mare e Carter capì dagli affreschi che questa non era altre che la solitaria roccia senza nome che aveva visto mentre navigava verso Inquanok; quella grigia roccia maledetta che i marinai di Inquanok evitavano e da cui vili ululati echeggiano per tutta la notte.
E in quegli affreschi era ritratta anche la capitale dei quasi-umani col suo porto marittimo; risplendente di pinnacoli tra scogli e banchine di basalto, e meravigliosa con i suoi alti templi e le piazze scolpite. Grandi giardini e strade colonnate conducevano dalle scogliere e da ciascuna delle sei porte coronate da sfingi ad una vasta piazza centrale, e in quella piazza vi era una coppia di colossali leoni alati che sorvegliava la cima di una scala sotterranea. E ancora ed ancora comparivano quegli enormi leoni alati, i loro possenti fianchi di diorite che brillavano nel grigio crepuscolo del giorno così come nella nuvolosa fosforescenza della notte. E continuando ad imbattersi nelle loro frequenti e ripetute immagini, a Carter venne finalmente in mente cosa fossero davvero, e quale fosse quella città che i quasi-umani avevano governato così anticamente prima dell’arrivo delle galee nere. Non poteva sbagliarsi, poiché le leggende del mondo dei sogni sono precise e abbondanti. Quella città primordiale era senza alcun dubbio la leggendaria Sarkomand, le cui rovine erano decadute un milione di anni prima che il primo vero umano vedesse la luce, e i cui titanici leoni gemelli custodiscono per l’eternità i gradini che conducono dalla terra dei sogni giù fino al Grande Abisso.
Altri scenari mostravano le scarne cime grigie dividere Leng da Inquanok, ed i mostruosi uccelli Shantak costruire i loro nidi sulle sporgenze centrali. E mostravano anche le curiose grotte vicine alle più alte cime, e come anche il più audace degli Shantak voli via da esse gridando. Carter aveva visto quelle grotte quando le aveva superate, e aveva notato la loro somiglianza con le grotte dello Ngranek. Ora seppe che la somiglianza era più che una eventualità, perché in queste immagini venivano mostrati i loro terribili abitanti; quelle ali di pipistrello, le corna ricurve, le code spinate, le zampe prensili e i corpi cartilaginei non gli erano estranei. Aveva già fatto la conoscenze di quelle creature silenziose e svolazzanti con i loro artigli; quei dementi guardiani del Grande Abisso di cui persino i Grandi hanno timore, ed il cui signore non è Nyarlathotep bensì il venerabile Nodens. Poiché essi erano i temuti scarni notturni, che mai ridono né sorridono perché non hanno un volto, e che si trascinano senza requie nell’oscurità tra la Valle di Pnath e i passaggi verso il mondo esterno.

Qui il protagonista continua ad andare avanti nonostante tutto l’orrore che vede e quello che non vede. Ed è qui che sta la genialità dello stile di Lovecraft, uno stile fatto di detto e non detto, di aspettative, di angoscia persistente. Le creature con cui il personaggio ha a che fare sono a malapena descritte, di una si dice che è un insieme di corna e artigli e ali e che non ha un volto, di un’altra che ha una forma vagamente demoniaca, con corna, una bocca larga e zoccoli al posto dei piedi. E per giunta questi ultimi, questi diavoli ferini, si vedono infine danzare attorno a fuochi accesi in una landa fredda e desolata, contornata da montagne alte e oscure che portano ancora il segno di divinità furiose e dissennate. Quello lovecraftiano è un mondo cupo, scuro, indefinito e per questo infinitamente più spaventoso di tanti altri. Gli orrori cosmici di cui ci parla il solitario di Providence sono tanto più terrificanti quanto meno ce li descrive. Il dio supremo Azathoth è un ammasso gorgogliante che dorme al centro dell’universo, cosa che ci viene ricordata piuttosto spesso tra l’altro; giusto per dirci “non credere di essere al sicuro, di startene tranquillo, perché nelle profondità dello spazio, circondato da dèi privi di senno, sta il caos primigenio, il demone sultano che gorgoglia eternamente oltre ai vortici spaziali che chiunque pregherebbe di non vedere mai neanche da lontano. Così il terrore che generano i suoi scritti non viene dalle descrizioni accurate di mostri e demoni, bensì dalle loro ombre sempre in agguato. Basti pensare agli scarni notturni, questi esseri scheletrici privi di volto che popolavano i sogni del Lovecraft bambino. Sono alati, silenziosi e privi di senno e calano dall’alto senza fare il minimo rumore, così che uno si rende conto di essere stato preso e portato via solo quando è ormai troppo tardi. La paura che si prova deriva tutta da questa costante incertezza, dal timore dell’ignoto. E d’altronde lo stesso autore diceva che la paura più potente è proprio quella dell’ignoto, di ciò che non conosciamo, la paura degli abissi, la paura del buio, la paura della morte.

L’ultimo modo di fare horror che andremo ad analizzare richiede un narratore più versatile e un respiro più ampio. Se nelle modalità precedenti ci si affida ad una nota di fondo continua che contribuisce a creare l’angoscia, qui ci si serve della stessa melodia. Bisogna dire prima di tutto che questa tecnica è molto imitata, ma molto di rado messa in opera in modo realmente efficace. Si tratta dell’usare gli avvenimenti e la struttura stessa della storia per giocare crudelmente coi sentimenti del lettore.
Ad un lettore distratto può sembrare che tutto si basi sul corretto utilizzo di colpi di scena, ma quello in realtà è lo strumento tipico di qualsiasi opera narrativa. Oltretutto nelle pallide imitazioni che si fanno di questa tecnica, spesso il colpo di scena è usato malissimo e serve solo a risvegliare un sonnolento spettatore già assuefatto alle troppe emozioni. Questa tecnica in realtà si basa proprio sull’estremo opposto. Il narratore usa la fiducia che il pubblico ha in lui per creare un forte senso di sicurezza e tranquillità e poi attende il momento opportuno per farlo a pezzi.

Un esempio molto efficace di quest’ultima tecnica si trova in un libro in cui di horror non ci aspetteremmo neanche il sentore, ovvero Callista di John Henry Newman. Nel capitolo ventitreesimo si trova una scena singolare: il capitolo comincia con la descrizione della capanna di una strega e dei segni raccapriccianti di magia nera che la circondano. L’autore procede poi a rassicurare il lettore che non si parlerà certo di riti magici e aggiunge che non gli interessa indagare se la magia fosse reale o lei si fosse convinta di avere dei poteri provenienti dagli inferi. Il lettore procede un poco rassicurato quindi a leggere il contrasto acceso che ha con uno dei personaggi (Juba). Durante questo dialogo le accuse alla strega arrivano, all’improvviso, alla descrizione di un rito cruento con tanto di infanticidio. Juba si sofferma nel descrivere particolari raccapriccianti, sfidando la vecchia e affermando di essere un uomo libero e padrone di sé stesso. La sua spavalderia e la rabbia apparentemente impotente creano di nuovo un senso di sicurezza che era già stato accuratamente preparato. Se è stato descritto il rito magico, infrangendo la promessa fatta, di certo non ci si attende che si infranga l’altra rassicurazione, ovvero che gli incantesimi siano efficaci. La fiducia del lettore viene tradita nuovamente in modo magistrale, precipitandolo nell’angoscia, ed ecco che l’horror è servito persino in un peplum che parla del III secolo d.C. Come già detto non si tratta di un gioco di colpi di scena, ma nello scombussolare le certezze del lettore dopo avergliele create. Si tratta di un gioco di preparazione meticoloso, effettuato col solo scopo di raggiungere, in ultimo, l’horror, ovvero la descrizione del male.

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Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.

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