C’è una scena che salvo del secondo Pirati dei Caraibi ed è quando Davy Jones cammina sul ponte, davanti ai prigionieri di una nave che ha attaccato chiedendo: “Temi tu la morte?” a ciascuno di loro. La ragione per cui mi è cara non è questo memento mori condito in salsa di polipetti, ma per una risposta di un uomo tremante che stringe fra le mani un rosario: “Mi prendo le mie responsabilità, signore”.
La cosa che tanto mi piace di questa scena è che questa è l’unica risposta sensata che si possa dare ad una domanda tanto insensata. Poche ciance, tutti abbiamo paura di morire, perfino il più allenato degli stoici, se si mantiene umano. La morte è una cosa tremendamente seria, e nessuno di noi ha la certezza di cosa ci attenderà dall’altra parte; perfino i santi più vicini a Dio e penitenti sapevano che tra Inferno e Paradiso corre una lama di coltello e che la parte da cui si cade non è così certa. Possiamo concedere a San Paolo, che più volte l’aveva dovuta affrontare e schivare per un pelo, di avere una certa serenità a riguardo, ma persino lui, proprio quando ci dice che desidererebbe esser morto per essere nella gloria di Dio, ci mostra i suoi dubbi. Cristo stesso chiese di allontanare da Lui questo calice, e noi pretenderemmo da noi stessi di non temerlo.
Certo, si può vincere il timore, ma questo non vuol dire di non averlo, anzi, il fatto di doverlo vincere dimostra proprio che lo si è avuto. D’altra parte ritenere la mancanza di timore della morte una virtù da ricercare piuttosto di altre è molto rischioso, o forse proprio una perdita di tempo. Se c’è una cosa di cui dobbiamo ringraziare i memento mori dei monaci e dei frati predicatori non è certo di aver reso meno oscura e incerta la morte, ma di averci ricordato che la vita è luminosa e bella e di quanto sia grande la responsabilità di viverla bene. Se il timore della morte non ci ricordasse che la vita ha un termine, non sono così certo che sapremmo apprezzarla. Un’immortalità terrena ci sarebbe noiosa come al vecchio Chirone; la certezza di un premio ultraterreno, di una continuazione migliore della vita, ci sarebbe oziosa.
D’altra parte il rischio di credere alla predestinazione, ci ammonisce la storia, è di iniziare ad accumulare ricchezze invece di virtù in un mondo dove i ladri rubano, le tarme consumano e i vermi mangeranno un giorno le vostre carni. La mancanza di un sano nichilismo cristiano e del timore che ne consegue può portare a mille esiti, ma dubito che essi possano essere buoni. Risolvere il mistero terrificante della morte con una risposta troppo certa e positiva è come ignorarne l’esistenza; è la superbia che Leopardi tanto spesso vedeva nei Cristiani e che tanto repelleva. Il Paradiso non si conquista meritandolo a testa alta, ma mendicando misericordia.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.