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Riflessioni antropologiche e economiche

Sentiamo molto parlare della crisi dell’autorità e delle sue devastanti conseguenze; io questa crisi non la vedo, almeno non quanto vorrei. È vero che alcune autorità (principalmente quelle famigliari e scolastiche di basso livello) si sono alquanto indebolite, ma in compenso molte altre hanno raggiunto una forza incredibile. La verità è che la crisi che c’è stata è quella dell’autorità personale. Coloro a cui siamo più vicini, che ci hanno dimostrato di essere uomini come noi, con i difetti che bene conosciamo e le qualità che ormai ci sono venute a noia, ci paiono i meno degni di fiducia. Secondo questa mentalità i genitori sono meno autorevoli della maestra, la maestra del professore, il professore del professore universitario, il professore universitario del manuale, il manuale della mentalità comune, il tutto per il semplice fatto che seguono un’anticlimax di umanità e nostra percezione dell’umanità.
Ora, se ci pensiamo attentamente, tutto ciò è ridicolo ed estremamente irragionevole e credo lo si possa capire traslando la questione sulle faccende concrete. Immaginiamo che all’uscita da scuola un bambino non si fidi di farsi venire a prendere da sua madre di cui conosce la guida sgangherata, ma preferisca assolutamente vederla sostituita da un perfetto sconosciuto di cui semplicemente gli hanno detto che è un buon autista. Sarebbe ragionevole? Assolutamen
te no. E perché? Per il semplice fatto che non si sarebbe preso in considerazione un fattore fondamentale, ovvero quello umano. Innanzitutto ogni uomo ha delle simpatie e antipatie naturali; in secondo luogo ha una storia che ha modificato il suo modo di pensare; in terzo si muove in un ambiente che costantemente lo condiziona; in ultimo le sue libere scelte lo pongono su di una strada ben precisa che difficilmente cambierà. Il bambino non ha nessuna di queste informazioni, così come lo studente non sa praticamente nulla di chi ha scritto il suo manuale, e al cittadino non è dato conoscere niente di chi scrive l’articolo che sta leggendo o ha preparato il servizio al telegiornale che sta guardando. Eppure si fida sempre di più di ciò che non conosce che di ciò che conosce, perché è posseduto dal terribile pregiudizio positivo che tutto il mondo sia meglio del mondo minuscolo in cui lui si muove. Se un uomo corresse per la sua città sbraitando che gli alieni sono sbarcati sulla terra, lo prenderebbe per un pazzo per il semplice fatto di averlo visto con i propri occhi e sentito con le proprie orecchie. Se la notizia fosse riportata da un giornale a nome di un giornalista o di uno studioso famoso di cui non sa neanche se è stato lui a scrivere l’articolo, sarebbe di certo molto più propenso a crederlo. Perché tutto questo?
Si parla molto di relativismo e relativizzazione, spesso dando la colpa a Hegel, ma questi argomenti, a mio parere, non reggono fino in fondo. L’autorità è sempre stata relativa e fare di qualcuno l’autorità suprema su tutto solo perché è il proprio padre o il papa è non meno irragionevole e non meno ridicolo e fa davvero dispiacere vedere i sostenitori dell’autorità appellarsi ad una tale concezione, che è solo una via comoda per non fare il proprio lavoro personale di comprensione di sé e del mondo. D’altro canto è evidente che anche i movimenti e le correnti meno ragionevoli hanno abbandonato ormai da tempo perfino il loro relativismo di facciata e puntino ad affermare con forza verità assolute. Oltretutto questo non spiegherebbe in altro modo la concezione di ciò che è esterno come migliore.
A mio parere il problema risale a quel preciso momento in cui è stata inventata la pubblicità. Di fondo essa è nata principalmente con due scopi: convincere il consumatore che la sua vita sarebbe stata più bella se avesse comprato un certo prodotto o se avesse comprato il prodotto di una ditta piuttosto che di un’altra. Per raggiungere questi obiettivi la pubblicità ha creato un’infinità di modelli immaginari a cui l’uomo occidentale tende senza rendersene conto, che essi siano possibili, sostenibili, sensati o meno. Nell’uomo, ognuno lo sa, è presente un desiderio costante, ma indefinito di qualcosa di meglio, e la pubblicità ne ha dato dei modelli concreti, moltiplicando all’infinito le illusioni e delusioni dell’uomo e portando all’esasperazione le sue pretese. L’uomo contemporaneo è stato convinto che basti pagare per avere non solo tutto quello che vuole, ma il meglio di tutto; ovvio che di fronte ad una tale pretesa tutte le cose che si possono facilmente confrontare con essa, ovvero quelle più vicine, quelle che conosciamo, ci deludono molto rapidamente e non ci risultano più credibili.

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Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.

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