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La schiavitù nella letteratura 1: Odissea

Quando si parla di schiavitù si tende ad immaginarla in due modi che dipendono principalmente dall’iconografia (anche piuttosto recente) che ne è stata fatta. La prima è quella di povera gente costretta a costruire le piramidi sotto la minaccia della frusta, la seconda invece vede come protagonisti gli afroamericani nelle piantagioni di cotone e granturco negli stati agricoli del sud degli Stati Uniti d’America. La schiavitù non è stata certamente idilliaca in alcun periodo storico, ma bisogna dire che queste due immagini che se ne danno sono decisamente parziali, anche perché essa finiva con l’assumere una grande varietà di forme persino all’interno dello stesso periodo storico.

Occorrerebbe poi fare una distinzione fra quella che era la schiavitù come istituzione e le altre istituzioni affini, se non dei semplici mascheramenti della stessa per farla sopravvivere in un mondo dove non è più approvata. Di fondo un lavoro durissimo senza compenso, che sia per espiare e riparare alle proprie colpe o ad un debito contratto, o ancora il destino di un prigioniero di guerra, rientra nello stato servile in senso lato e noi proveremo a coprirlo in questa rubrica. La schiavitù si configura quindi, nella nostra indagine, come la restrizione della libertà di una persona che prevede lo sfruttamento del suo lavoro e della sua libertà stessa.

Euriclea: la schiavitù domestica

La prima schiava a cui viene concesso un poco di spazio nella letteratura occidentale si trova nell’Odissea, Libro I:

Il seguiva Euricléa, l’onesta figlia
D’Opi di Pisenòr, che un dì Laerte
Col prezzo comperò di venti tori,
Quando fioriale giovinezza in volto:
Né è cara men della consorte l’ebbe,
Benché, temendo i conjugali sdegni,
Del toccarla giammai non s’attentasse.
Con accese il seguia lucide faci:
Più gli portava amor, ch’ogni altra serva,
Ed ella fu, che il rallevò bambino.

Euriclea è sicuramente un caso molto particolare all’interno della narrazione della schiavitù. Nell’Odissea, in generale, il ruolo degli schiavi è particolarmente rilevante e vengono ritratti con una particolare attenzione. La caratteristica che interessa prima di tutto ad Omero è la loro fedeltà e vengono sostanzialmente trattati tutti come sudditi del sovrano di Itaca. Leggendo il poema si nota una divisione della società fra nobili e schiavi, con un ruolo fuori dalle righe dei mendicanti, che hanno la libertà ma comunque dipendono dalla generosità dei primi. La nutrice di Ulisse, però, in particolare viene trattata con dei guanti. Dalle poche parole che le sono dedicate nel primo canto ci vengono date moltissime informazioni. Innanzi tutto ne conosciamo il padre e la madre, un segno particolare di distinzione nel mondo antico. Poi sappiamo che il suo valore corrisponde a quello di venti capi di bestiame (Pindemonte traduce “tori” ma il termine è più generale). Omero si premura di fornirci questo dettaglio per dirci che questi soldi sono ben spesi. Confrontando questo ad esempio con il valore delle armature che si scambiano Glauco e Diomede in Iliade VI possiamo quantificare il valore di uno schiavo. L’armatura di Glauco, di bronzo, ha un valore di nove capi di bestiame; Euriclea vale più del doppio. Se pure lo schiavo è un oggetto, non si tratta di un oggetto qualunque; è qualcosa di prezioso. La parte successiva ci dà qualche altra informazione interessante. Laerte avrebbe potuto approfittare della schiava, ma non lo ha fatto per evitare l’ira della moglie. La volontà di Euriclea non è particolarmente tenuta in conto, quella che conta è quella della legittima sposa, e la cosa viene presentata come perfettamente normale, anzi, quasi fosse un vantaggio per la schiava. La schiavitù greca mette il subordinato in una condizione tale in cui non può disporre di sé stesso in alcun modo. Allo stesso tempo però, un padrone particolarmente buono e gentile può trattare con una particolare attenzione e gentilezza lo schiavo.

Eumeo: la schiavitù di fatica

Nell’Odissea c’è poi un altro schiavo che viene proposto in modo positivo. Si tratta del porcaro Eumeo e qui il caso è piuttosto diverso. Il caso di Euriclea è quello di una schiava domestica, che sostanzialmente si occupa di tener pulita la casa, dirigere le altre schiave che lo fanno, come si vede in Odissea XXII, e allevare i figli del padrone; un lavoro non fra i più pesanti, anche se abbiamo visto che si era totalmente soggetti alle voglie del padrone. Il caso dello schiavo di fatica però è parecchio diverso. Innanzi tutto non abita la casa del padrone, ma si occupa di una parte della sua proprietà. Ci dice il canto XIV:

Là si rivolse, dove Palla mostro
Gli avea l’inclito Euméo, di cui fra tutti
D’Ulisse i miglior servi alcun non era,
Che i beni del padron meglio guardasse.
Trovollo assiso nella prima entrata
D’un ampio, e bello, ed altamente estrutto
Recinto, a un colle solitario in cima.
Il fabbricava Euméo con pietre tolte
Da una cava propinqua, e mentre lungi
Stavasi Ulisse, e senz’alcun dal veglio
Laerte, o da Penelope, soccorso:
D’un’irta siepe ricingealo, e folti
Di bruna, che spezzò, quercia scorzata
Pali frequenti vi piantava intorno.
Dodici v’eran dentro una appo l’altra
Commode stalle, che cinquanta a sera
Madri feconde ricevean ciascuna.
I maschj dormian fuor, molto più scarsi,
Perchè scemati dall’ingordo dente
De’ Proci, a cui mandar sempre dovea
L’ottimo della greggia il buon custode.
Trecento ne contava egli, e sessanta;
E presso lor, quando volgea la notte,
Quattro cani giacean pari a leoni,
Che il pastor di sua mano avea nodriti.
Calzari allor s’accomodava ai piedi,
Di bue tagliando una ben tinta pelle,
Mentre, chi qua, chi là, gïano i garzoni.

Si tratta, come già si è detto, di una forma di schiavitù molto diversa dalla precedente. Mentre di Euriclea si esalta l’affetto che aveva saputo suscitare per la sua persona, di Eumeo viene mostrata l’operosità e i concreti risultati che il suo lavoro ha prodotto. Anche lui dopo anni di servizio ha sotto di sé dei “garzoni”, ma i suoi compiti sono molto meno piacevoli e più duri, oltre al fatto che non si limita a comandarli. Il buon servo non si limita a fare il suo lavoro, ma ha come scopo l’accrescere la proprietà del padrone che gli è stata assegnata. La sua distanza dal palazzo lo rende più libero, ma solo finché non viene sottoposto al controllo continuo da parte del padrone. D’altra parte, è costretto, pur controvoglia a dar via le proprie bestie per i vizi dei Proci, sostanzialmente contravvenendo a quello che sarebbe il suo scopo, ma allo stesso tempo sottomettendosi a quello che è il suo stato: non può opporsi ad un uomo libero.

Diritti e libertà di uno schiavo

Qui si arriva ad uno dei punti più interessanti di tutta la visione degli schiavi nell’Odissea, probabilmente corrispondente a quella che era l’istituzione della schiavitù nell’età arcaica, basata su norme consuetudinarie e non ancora su leggi scritte. C’è qui un passaggio molto interessante in Odissea XVIII, in cui Melanto, una schiava non fedele a Penelope, insulta Odisseo mentre è nelle vesti di mendicante:

Costei pungea villanamente Ulisse:
Ospite miserabile, tu sei
Un uomo, io credo, di cervello uscito,
Tu, che in vece d’andar nell’officina
D’un fabbro a coricarti o in vil taverna,
Qui tra una schiera te ne stai di Prenci,
Lungo cianciando, e intrepido. Alla mente
Ti salì senza forse il molto vino,
O d’uom briaco hai tu la mente, e quindi
Senza construtto parli. O esulti tanto,
Perchè il ramingo Iro vincesti? Bada,
Non alcun qui senza indugiare insorga,
Che, d’Iro assai miglior, te nella testa
Con le robuste man pesti, e t’insozzi
Tutto di sangue, e del palagio scacci
Bieco guatolla, e le rispose Ulisse:
Cagna, io ratto a Telemaco i tuoi sensi,
Perch’ei ti tagli qui medesmo in pezzi,
A riportare andrò. Così dicendo,
Le femmine atterrì, che per la casa
Mosser veloci, benchè a tutte forte
Le ginocchia tremassero: sì presso
Ciò, ch’ei lor detto avea, credeano al vero.

Va prima di tutto fatta una premessa: Odisseo, nelle vesti di mendicante, si trova in uno status non troppo diverso dal quello di uno schiavo. Il suo vantaggio principale è quello di potersi allontanare dalla casa e non avere dei compiti specifici. Bisogna notare però che Iro, proprio grazie al suo status di mendicante e quindi di libero, era usato come messaggero da parte dei Proci. Inoltre, mentre lo schiavo viene nutrito e curato dal padrone, il mendicante dipende in tutto dalla generosità e pietà del patrono cui si affida che però è libero di maltrattarlo senza che nessuno lo difenda. Persino lo schiavo può aggredirlo e il suo unico modo di difendersi è di appellarsi al padrone. Questo però ci dice molto su quale fosse la schiavitù nel mondo omerico. Lo schiavo è una sorta di appendice del padrone; non si tratta di un essere di condizione inferiore in quanto tale, ma di un essere dipendente da un altro. Odisseo non ha la facoltà di difendersi da solo da Melanto, ma deve affidarsi a chi ha realmente autorità su di lei, nonostante sia un uomo libero e lei no. La schiavitù, in questo caso, mostra di avere dei privilegi particolari; offendere lo schiavo è offendere il suo padrone e questo permette di avere una qualche forma di difesa in un mondo in cui i confini del diritto non sono perfettamente definiti da una legge scritta ma amministrati dai nobili, basandosi sulla loro autorità. Mentre il mendicante deve chiedere e sperare perfino quando deve difendersi da uno schiavo (e non può far nulla contro i numerosi soprusi dei Proci, che sono uomini liberi e nobili), lo schiavo può confidare, in virtù della sua particolare condizione, nel padrone a cui è legato da un rapporto particolare.

D’altra parte, il vero dovere dello schiavo è la fedeltà al padrone, come abbiamo visto già in precedenza. La sua qualità morale è determinata da questo e da null’altro. Non importa nulla di Euriclea se era una bella persona: il suo essere amata dal padrone coincide con l’esserlo; non è rilevante se Eumeo fosse devoto agli dei, o dedito a opere buone: le sue opere buone sono il ben badare ai beni che gli sono affidati. Lo schiavo è certamente un uomo e deve essere trattato e difeso come tale dal proprio padrone, ma il suo essere uomo non è per nulla rilevante. Si parla a volte della schiavitù come condizione intermedia fra essere umano e oggetto, ma la verità è che il servo si configura come una classe totalmente a parte. Lo status che più gli assomiglia nell’antichità e in particolare nei poemi omerici è quello del bambino; non ha potestà su sé stesso, non è libero di fare ciò che vuole, deve seguire le istruzioni di chi ha autorità su di lui e solo da questi può essere punito; allo stesso tempo però le sue responsabilità sono ridotte e ricadono sul padrone. Non gode esattamente di diritti quanto di particolari privilegi che non sono relativi a chi è e come si comporta, ma semplicemente allo stato servile. Per approfondire questa condizione dovremo aspettare di arrivare a considerare il periodo delle leggi scritte.

Bibliografia
Omero, Odissea, traduzione di Ippolito Pindemonte
Omero, Iliade, traduzione di Vincenzo Monti
MacMunn, George, Slavery Through The Ages

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Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.

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