Conosciamo tutti la citazione da Dostojevski; meno persone la sanno mettere nel suo contesto. A pronunciarla è il Principe Myshkin, l’idiota, l’ingenuo (forse sarebbe una traduzione creativa, ma migliore). Myshkin crede fermamente in quello che dice e lo stesso Dostojevski lo definisce come una persona assolutamente bella, innocente, buona. Il finale del libro però lo vede sconfitto in ogni campo: la donna che voleva salvare con la sua bellezza è morta, un uomo malvagio se l’è prima portata via e poi l’ha uccisa; la sua stessa sanità mentale è completamente andata perduta. Quello che gli resta soltanto è l’affetto di chi davvero lo ha amato e lo accudisce.
La bellezza, ci dice Dostojevski, non salverà il mondo, per il semplice fatto che essa stessa ha bisogno di essere salvata. Non basta essere innocenti, intatti, a questo mondo, non basta essere buoni; anzi, ad essere solo buoni non lo si è davvero. E questo è quanto si può ricavare dal semplice contesto del libro, per quanto molti abbiano tentato di storpiarlo per farlo aderire alla loro concezione della realtà.
Se però allarghiamo la nostra prospettiva, possiamo contestualizzarlo e capirlo ulteriormente. L’Idiota è un libro rivolto alla distruzione di un’idea profondamente radicata nell’età vittoriana, una profonda aporia di cui il decadentismo è stata la sommità espressiva. La bellezza nel tardo ottocento era concepita come un’entità dotata di un suo proprio status spirituale, intermedio tra il divino e l’uomo, qualcosa di simile all’Eros platonico. Eppure, sempre per una sorta di concezione platonica, nel suo incarnarsi, realizzarsi, esistere si sporcava e perdeva la sua realtà.
Il primo romanticismo aveva esaltato il desiderio, il vittoriano lo teme; e purtroppo la bellezza, così pura e splendida, genera desiderio. Si tratta di una concezione profondamente puritana e rousseauiana della realtà: il tardo ottocentesco crede che l’unico modo per mantenersi buono sia preservare in ogni modo la sua innocenza, che però è continuamente insidiata dal mondo e dalla società che lo circondano; è però anche un uomo pratico e sa che non potrà farlo. Che gli resta allora? Forse esaltare questa bellezza effimera, forse fingerla come Dorian Gray ammantandosene esternamente, forse cercare di creare un mondo dove questa non sia toccata e rovinata come ragionava un secolo prima Rousseau; forse ancora arrendersi al fatto che essa non è fatta per i mortali e disperare e cercare di agguantare ovunque ella abbia lasciato la sua impronta e attendere che infine cambi il cuore nostro e altrui.
Qui irrompe L’idiota a dire una cosa estremamente semplice e terrificante. Non solo la bellezza non è una divinità; non è neanche un semidio. L’innocenza non basta a preservarla, ed anche dove è perfettamente preservata non basta non solo a salvare il mondo, ma neanche a incidere in esso. Il principe Myshkin ha vissuto per la sua malattia fuori dal mondo proprio nel periodo in cui il suo carattere si è formato; è stato preservato dal male, non è stato corrotto e non viene corrotto per un istante in tutta l’opera. Non è abbastanza. La tragedia della vita è tanto grande e terribile da poter schiacciare l’uomo più perfetto con la più estrema facilità. L’altruismo, l’abnegazione, il sacrificio personale non sono nulla; polvere ed inseguire il vento. In ultimo la venerazione per la bellezza vittoriana è smascherata: è idolatria. Uno può essere bello e buono fino in fondo e non salverà nessuno; non importa quanto romanzi, poesia e filosofia cerchino di giustificare la cosa, pensare che essa ci salvi è solo cattiva teologia, escatologia da due soldi.
La bellezza non salverà il mondo per una semplice ragione: essa stessa ha bisogno di essere salvata. L’uomo buono, innocente, puro, bello non è per questo minimamente degno del Paradiso, e neanche del Paradiso in terra. Tra Natasha e Aglaia il principe Myshkin sceglie la prima perché è la cosa più bella e più idiota; la perde e finisce pazzo perché la seconda era la sua via per la salvezza. La bellezza non salverà il mondo perché esso è già stato salvato, ma si ostina a cercare di essere perfetto da sé invece di accettare la via che gli viene donata.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.