Un uomo si china sul bagnasciuga di un fiume. Raccoglie un sasso stondato dalla corrente e inizia a rigirarselo fra le mani. I suoi lineamenti, prima inespressivi, si contraggono in una smorfia di dolore represso.
Che è successo? Quell’uomo ha percepito quel sasso. Ha sentito che esisteva, che era concreto e la cosa lo ha fatto stare male. Forse si è sentito anche lui un sasso inutile, gettato su una riva, stondato dalla corrente e destinato inesorabilmente a diventare sabbia. Forse si è reso conto di quanto tutto è fastidiosamente reale, e questo vuol dire che lo è anche lui e… e…
Sartre descriveva così La Nausea, il senso di fastidio che si prova ad impattare con la realtà, al cozzare con i suoi spigoli, la sua durezza concreta ed il semplice fastidio di vivere, l’insostenibile pesantezza del camminare sulle proprie gambe. Ma è davvero tutto lì un sasso?
Se lo guardiamo solo nel momento in cui lo teniamo fra le mani, sì. Gli si può al massimo dare un qualche un giudizio estetico e fine, non c’è altro, il suo ruolo è esaurito. Solo uno sciocco però riposa a terra un sasso raccolto sulla riva di un fiume.
L’acqua è lì, lo attende, lo brama, desidera incresparsi in rapidi cerchi nell’accoglierlo nel suo abbraccio; desidera vederlo rimbalzare più volte sulla sua superfice, se il braccio del lanciatore è abile. Il gioco rende più reale il sasso stesso, gli dà uno scopo, una direzione, delle conseguenze volute, lo rende, di fatto, metafisico.
Ma non finisce qui. Un geologo osserverà quel sasso come il frutto di un’antichissima esplosione vulcanica che poi è stato eroso dall’acqua e trasportato a valle. Un chimico si chiederà cosa sia stata quella porzione di materia prima, quante volte si sia ricombinata e in quanti modi. Uno storico si ricorderà il sasso lanciato da Giovan Battista Perasso, un religioso la fionda di Davide e le sue cinque tonde munizioni e via così.
Solo un sasso senza una storia è solo un sasso, ed è questa una delle ragioni per cui esistono i racconti: la pura e semplice esistenza delle cose è nauseante e richiede un assoluto di più. L’unico modo per dargli questo di più è inserirlo in una storia, nella sua storia; non solo nel suo divenire meccanico e freddo, ma nel suo rapportarsi con noi e nel nostro non riposarlo a terra, come se nulla fosse successo.
A dire il vero, privarlo di questo di più gli toglie dimensioni che esso stesso possiede. Ogni sasso ha una storia, per quanto minuscola sia la scala con cui lo osserviamo. Il fatto stesso che io lo abbia raccolto gli dà un’importanza che nessun altro sasso ha; il fatto che mi abbia suscitato un pensiero in quel momento, o lo abbia fatto con Sartre, rende quel sasso unico e degno di sedere ad una cattedra di filosofia più di molti accademici. Un pensiero è una cosa rara.
Possiamo guardare il sasso dalla culla dell’uovo primordiale e poi vederlo individuarsi nel corso del tempo, prima in un ammasso di gas in una stella, poi magma informe soldificatosi in una roccia immensa crepata dal ghiaccio, erosa dalle piogge, fatta a pezzi e trascinata un po’ alla volta a valle, dove il fiume lentamente l’ha scolpita fino a divenare quel pezzetto di pietra che ha ispirato un libro. Sarebbe un’epica gloriosa a ricordarci che Dio s’avvede persino della caduta di un sasso.
Invece, ridurlo al solo istante in cui entra nella nostra mano, è un atto di violenza. Significa pretendere che la realtà non esista se non nel momento in cui noi la percepiamo; il che diventerebbe molto divertente se il sasso invece di trovarcelo in mano ce lo trovassimo all’improvviso, dotato di congrua quantità di energia cinetica, fra gli occhi. L’esse est percipi dimentica che la realtà irrompe continuamente e spesso violentemente nella nostra vita e che questo presuppone che essa esista assai prima che la percepiamo.
Il fatto è che un pensiero è raro, ma un sasso lo è ancora di più, perché ogni sasso è solo quel sasso ed ogni uomo è solo quell’uomo, mentre un pensiero può essere di molti. La filosofia di Sartre, persino la sua nausea, in sé valgono meno del pezzetto di pietra che l’hanno provocata. Ed è questa, in fin dei conti, la storia di un sasso.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.