Skip to content

Davvero vogliamo essere rappresentati dalla poesia di Amanda Gorman?

Si trova praticamente ovunque, buttata sotto gli occhi di tutti, questa ragazzina che ha recitato una sua poesia alla cerimonia di insediamento di Joe Biden. Ora, al di fuori di tutte le ragioni per cui è interessante l’evento, al di fuori del personaggio della Gorman, è sempre cosa molto utile in questi casi vedere che cosa viene scelto e perché.

Diamo quindi un’occhiata al testo che si può trovare qui. Innanzi tutto va notato che non è esattamente una poesia. Si tratta più di un monologo lirico, con alcune rime e anafore all’interno. La poesia moderna forse ci ha abituato al verso libero e tutto quello che ne consegue, ma qui proprio non c’è alcuna intenzione di andare oltre, di formare versi, strofe, di cantare. Sia chiaro, non è un difetto questo della Gorman, ma di giornalisti e quant’altro che non si mettono ad approfondire nulla.

Se si inizia a parlare di stile però la faccenda già si complica. In primo luogo risulta difficile capire a cosa paragonarla. Ci sono sì degli echi letterari, ma la maggior parte dei toni sono da monologo motivazionale, o, peggio ancora, da pubblicità. Non è per niente difficile immaginarsi la lettura come sottofondo alle immagini di una nuova auto, o di un cellulare. Forse anche questo fa parte della pop culture, ma resta comunque un po’ triste vedere degli ideali politici, condivisibili o meno, ridotti ad uno spot. Le figure retoriche all’interno poi paiono scelte proprio a questo scopo, il che non aiuta minimamente a godersi i contenuti.

E qui si arriva al punto cruciale di tutto. Una delle faccende tipiche della poesia-non poesia moderna sta nel fatto di giocare il più possibile con emozioni e sentimenti del pubblico, suscitarli, smuoverli, privilegiandoli spesso rispetto al messaggio. Qui non è assolutamente così. Se si dovesse definire questo testo in base ai contenuti, ci si troverebbe di fronte ad un bivio. Si potrebbe parlare di un’inno alla sensibilità, e all’unione, oppure di un ce la faremo ripetuto all’infinito. I temi all’interno sono semplicemente: vogliamo essere uniti, superare le divisioni, non siamo perfetti ma vinceremo. Come si possa fare tutto questo, o anche solo esattamente quali siano i problemi da affrontare non è chiaro. Si dirà forse che fare queste cose non è compito dei poeti ma dei politici. Sarebbe come dire che le strade le fanno i politici e non gli operai. Il compito degli intellettuali, Gorman inclusa, non è di fare discorsi perché gli altri poi facciano. Le società si costruiscono non per un ordine dall’alto, ma per un’ideale, un destino comune a cui tendere. Ovviamente il destino comune non può essere che ci sia un destino comune. Sarebbe come chiedere a due persone di sposarsi perché l’unione è meglio che stare da soli. Due sarà duemila volte uno, ma è un due e non due uno.

Perché le persone inizino a volersi bene occorre qualcosa di più del dire che è bello stare insieme. Persino in un paesino di poche centinaia di abitanti si creano rancori ed inimicizie, che possono essere messe da parte solo se qualcosa le vince.

D’altra parte il tocco d’artista della retorica vuota è dire che l’unione stia nella propria storia e nel saperla correggere. Ora la storia non è esattamente quello che si può dire un testo scritto a matita, una lavagna da cui per togliere il gesso basta una passata di straccio. La storia incide profondamente e lascia ferite. La scelta può essere fra il cercare di risanarle ed il cercare di riequilibrare il tutto. Ora, il correggere punta decisamente nella direzione del cercare un equilibrio e qui cominciano i problemi seri. Dover riparare a quanto non si è fatto è ridicolo, oltre che fortemente disunitivo. Trovo piuttosto improbabile che un figlio ami il creditore del padre che pure deve rifondere. A noi forse non sono troppo chiare queste dinamiche, ma già si vedono anche in Europa gli effetti della mentalità intersezionalista e le sue conseguenze. L’idea è sempre quella di riparare il torto col torto, di correggere il corso della storia con un bel colpo di barra. Ma la storia non è una nave e non ha una direzione verso cui tende, solo un corso che può essere più o meno giusto, più o meno buono. La verità è che l’unica giustizia nella storia è ricominciare alla maniera di Trasibulo, cancellare via tutti risentimenti imponendo di ripartire da capo e dimenticare, ma non pare che ci sia un suggerimento verso questo nella poesia della Gorman, che si ferma ad aleggiare sulla superficie, senza degnarsi di vedere quanto è profondo l’abisso che vorrebbe risanare.

Website |  + posts

Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.

Schegge Riunite