Il principale ostacolo allo studio non è, come dicono alcuni, la cattiva volontà e l’ignoranza di base di quelli che dovrebbero usufruirne; piuttosto sta nel fatto che gli studiosi non sanno scrivere. Quali siano le ragioni di questo fatto, forse avremo modo di discuterlo altrove; per intanto descriviamo il fenomeno.
Il nemico principale dello studente è la noia; tolto questo, le fatiche e i tempi dello studio svaniscono, i voti diventano di secondaria importanza, i professori grifagni sono solo un ostacolo fra gli altri. L’accademia però non fa nulla per alleviarla, anzi tende ad aggravarla e la cosa va avanti da parecchie generazioni. Per una qualche ragione ci siamo convinti che un linguaggio tecnico e asettico sia più confacente alla letteratura accademica di qualsiasi altro, quasi fosse più efficace nel convogliare le informazioni. Il risultato è un mostro a molte teste, che si spera non ricrescano, né si moltiplichino come quelle dell’idra.
La citazione compulsiva
La prima testa di questa bestia immonda è il continuo citare e controcitare le fonti più disparate. Il verminoso brulicare delle bibliografie non sarebbe un problema, se tutte le opere citate fossero di per sè oggetto di studio; questo però, che si tratti di un dottorando alle prime armi o di un luminare affermato, è materialmente impossibile. Serve tempo per dormire, mangiare e respirare, e serve tempo per leggere e capire. Ne risulta che è impossibile che un paper uscito in un paio di mesi possa annoverare tra le sue fonti, lette, meditate e comprese a fondo, un mezzo centinaio di altri articoli o addirittura monografie. Come è logico, queste diventano principalmente opere consultate per sostenere una certa tesi e la vera fonte è l’idea che lo studioso ne ha tratto. La cosa però non deve assolutamente trasparire: l’accademia produce solo verità oggettive, ed il fatto che poi spesso non siano riproducibili non è affare del profano; di fondo lui mica ci mangia.
La scomparsa dell’io accademico
Questo ci riporta ad un altro problema non indifferente: le pubblicazioni sono diventate estremamente impersonali. La cosa può sembrare, nuovamente, una garanzia di oggettività, ma paradossalmente porta decisamente in direzione contraria. De facto, per come funziano peer review e indice Hirsch, il nome di chi scrive conta tantissimo; ma conta ancora di più che sembri che non conti, in una strana ipocrisia il cui scopo non è del tutto chiaro neanche a chi ne fa parte.
Sia chiaro, quando gli studiosi non avevano problemi a dire “io la penso così”, non erano sempre nel giusto. Ma almeno non fingevano di esserlo, ovvero si prendevano la responsabilità di quello che pensavano. Ragionavano in modo artistico, sfidando ad essere smentiti e corazzandosi dietro le loro prove, forse con hybris, ma di certo non annoiando chi si trovava a doverli contraddire. Parlando degli autori nel mio campo, De Rougemont e Huizinga hanno fatto grandi danni, ma almeno li si può additare come colpevoli; anzi, si possono smontare non solo i loro argomenti, ma il loro metodo, sempre che ne avessero uno, pezzo a pezzo. La loro tracotanza di fronte agli uomini era umiltà di fronte alla verità; avevano letto e studiato moltissimo e sfidavano noi, me fra tutti, a superarli, caso mai ne fossimo stati capaci. Pochi fra i contemporanei concedono un privilegio del genere.
Il frutto di queste due caratteristiche sono testi flaccidi, privi di audacia, sempre volti a giustificare ogni posizione con la citazione adeguata, anche quando la sopradetta posizione è un’intuizione originale dell’autore.
Argomenti futili
Una tale timidezza ed il continuo rifugiarsi dietro all’autorità non solo non giovano alla bella scrittura, ma danneggiano la ricerca stessa. Mai come oggi le università si affollano di argomenti mediocri, trattati con la prosopopea arida che solo il linguaggio accademico sa dare. Il risultato è spesso ridicolo.
I fiumi d’inchiostro spesi nel tentativo di riabilitare degli sconosciuti petrarchisti del XVI secolo sono la tipica montagna che partorisce il topolino, e poco di diverso si può dire delle dozzine di articoli che escono in ambito scientifico che non cambiano nulla nel complesso della ricerca.
Delle ragioni di questo problema, come già detto, forse parlerò altrove. Qui basti notare che il puntare basso di certo non invoglia chi dall’altro lato della barricata deve navigare questo fiume fangoso cercando qualcosa di valore; e che la pompa necessaria allo studioso per mantenersi a galla è proprio ciò che allontana chi liberamente vorrebbe conoscere l’argomento stesso, non costretto da un esame o dalla gabbia di una borsa di ricerca.
D’altra parte viene da chiedersi come si possa parlare con gravità delle nugae di Catullo e dei più nuovi che lo hanno imitato.
La serietà non è una virtù
Non è, d’altra parte, un caso che il letterato, dovendo scegliere quali testi proporre, analizzi sempre quelli più seri e ponderosi, fino al distorcere del tutto la personalità dell’autore, il tutto per darsi un tono. Pur tuttavia una grossa parte della letteratura è fatta di scherzi, alle volte anche feroci, che però hanno meritato un posto nella storia che a molti studiosi non sarà concesso. Da Luciano a Moliere, da Aristofane a Gadda, la letteratura è un continuo rivolgersi di giochi; d’altra parte dubito che Mendel non provasse un qualche segreto diletto nel pacioccare coi legumi e di Einstein la foto più famosa è tutt’altro che seria. Perché dovremmo essere i primi a trasformare ciò che amiamo in una fatica?
Una mancanza di vocazione
L’ultimo aspetto dell’immensa noia che mi danno gli scritti accademici lo voglio buttare giù così di getto: lo studioso non sa più chi è. Lo studio è stato ridotto ad un mestiere, un modo per procurarsi da vivere, la cui produttività quantitativa è molto più importante di quella qualitativa. Anzi, è diventato un bene di consumo, come ci dimostrano i mille articoli che concludono il loro titolo con “lo dice la scienza”.
La conoscenza però non è deperibile; non è la manna che cala nella notte e va consumata nel giorno prima che vada a male; piuttosto è il grano custodito per i tempi di vacche magre. E questo vale per la letteratura, che ci insegna l’arte di vivere, come per tutte le altre arti e scienze.
Noi moderni però abbiamo l’ansia dell’utilità e cerchiamo quindi di piegarla al nostro pragmatismo immediato. A cosa serve alla fin fine un articolo scritto bene? Non bastano i dati ordinati di modo che ce ne si possa servire? Eppure posso citare quasi a memoria la silva portentosa di Bedier, perché era un articolo scritto con arte; di molti altri non ricordo né titolo, né autore, né contenuto. E non è che Bedier mi sia mai stato particolarmente utile, ma se verrà il momento di tirarlo fuori dal mio sacco, so esattamente dove trovarlo e cosa farne. Di fronte al caos imprevedibile è sempre meglio essere preparati, anche se ci si prepara invano.
D’altra parte l’esperienza, proprio in questi giorni, ci dimostra che disprezzare ciò che ci pare inutile è poco vantaggioso. Folle di adoratori del numero, dei fatti e della scienza, per farsi forza di fronte alla guerra, non hanno citato formule fisiche, ma i poeti.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.