Uno dei primi film che abbia visto in DVD, quando ancora la tecnologia era nuova e la gente era ancora diffidente nei suoi confronti, è stato “La vita è meravigliosa”. Di per sé il film è carino ed ha avuto una serie infinita di remake, citazioni e via discorrendo, ed è diventato una sorta di classico del Natale. Eppure, riflettendoci bene, ripercorrendo la storia a memoria e poi controllandola mi è cominciato a suonare un lieve ma costante campanello d’allarme. La storia è semplice e commovente, il finale dolce come il miele e la domanda che suscita è forte: la vita ha uno scopo o un senso? Ha senso vivere? Ma il film glissa leggermente sulla risposta e la trasforma in: sono utile al mondo? La mia esistenza lo cambia?
Questo mi fa rabbrividire solo a pensarci. Bisogna ammettere che le due domande si assomigliano tanto che si possono confondere, eppure la lieve differenza fra di esse è quella che può trasformare la dannazione in redenzione. George (il protagonista) è finito nei guai, è vero, e rischia di perdere tutto quello che ha; eppure non ha perso ancora molti dei beni inestimabili che lo fanno un uomo come l’affetto della sua famiglia e dei suoi amici, la salute (a parte un ridicolo raffreddore), la sua forza e la sua giovinezza. L’angelo che lo salva gli dimostra semplicemente che può essere ancora utile al mondo e che la sua vita non è andata sprecata. Un bene questo, ma verrà un giorno in cui potrei anche non essere più utile a nessuno, anzi un peso, un vecchio straccio grinzoso che invece di essere buttato in un angolo come la logica vorrebbe preferirà starsene su una poltrona a ricordare un passato certamente più glorioso del suo presente. Forse quel giorno la vita non sarà più meravigliosa? Forse non sarà più degna di essere vissuta? Forse l’angelo che sarà mandato a salvarmi mi dimostrerà che ancora valgo qualcosa, che se non pagassi le tasse con la mia pensione qualcuno ne soffrirebbe; o forse mi dimostrerà che il mio passato ha prodotto qualcosa di buono. Ma l’ora futura che mi schiaccia, che mi priva del respiro lentamente, ogni giorno di più stringendomi la gola, l’ora in cui i parenti più giovani sulle cui spalle io peso iniziano a guardarmi aspettando la mia dipartita come un sollievo alle loro fatiche; l’ora, quell’ora, in cui le mie agili gambe, perso il loro nerbo sapranno solo giacere su di una poltrona semiaccasciate, sgonfiate della loro vita, che avrà da dirmi? Che cosa possiederò se non la mia inutilità? Forse qualcuno verrà a dirmi che la mia inutilità è meravigliosa? Io prego che sia così. Prego che mi si ricordi che quelle due gambe potrebbero non esserci, che il sole fuori potrebbe essersi spento o deciso a portare la sua luce nell’Ade, gli universi compattati in un punto, che nulla potrebbe essere; che non sono io il senso ultimo del mio essere.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.