Sono rimasto molto ferito dalle reazioni al Fertility Day. Non approvo questa manifestazione, né questo genere di manifestazioni in generale; sono dell’opinione che lo stato, riguardo a faccende delicate come quelle della cultura della famiglia debba appoggiarsi a iniziative di privati e favorirle piuttosto che fare pubblicità progresso, soprattutto quando gli slogan risultano tristi e deboli. La promozione del figliare mi sembra una cosa al limite del ridicolo ed in effetti questa campagna è ridicola.
Tuttavia la reazione che ha scatenato è a mio parere, soprattutto nei giovani, ancora più triste e decisamente sproporzionata; è come se fosse un argomento di cui non si vuole sentire parlare. Tutte le obiezioni mi sembrano da una parte delle scuse (non c’è lavoro, indice di disoccupazione giovanile al 39 %, mancanza di responsabilità) e dall’altra un rifiuto della “cultura” che c’è dietro ad un figlio (la donna non vale solo se ha dei figli, ci sono altre cose, non sono interessata), il tutto con una grandissima ferocia. Non volete figli? Nessuno vi può obbligare ad averne. Potete dedicarvi alla carriera, a divertirvi, alla stabilità economica, a tutto quello che vi pare. Se però ne desiderate, vi conviene non arrivare ai quaranta; secondo me era questo il messaggio che la campagna voleva far passare.
Perché non si desiderano i figli? Prima di tutto perché sono un impegno ed una responsabilità grandi verso cui prima di tutto ci sentiamo impreparati. La nostra epoca è più che mai incerta e ritiene di aver bisogno di mille training e allenamenti per poter accedere a qualcosa; quindi tanto vale risparmiarsi la fatica. Più di tutto però credo che influisca una certa mentalità estetica che punta a vivere la vita a pieno, ed esclude tutto quello che può contrastare tale godimento. Le nostre frivolezze ci hanno reso talmente seri e pieni di noi da non poter più fare a meno di loro; il nostro culto della gioventù ci spinge a vivere vite da giovani fino ai cinquant’anni ed i giovani non hanno figli. La verità è che non vogliamo figli perché non vogliamo vedere la nostra libertà limitata, perché vogliamo fare cose nuove e vecchie, somigliare a quelli che passano la vita a viaggiare il mondo per sentirci qualcuno, per sentirci vivi e forti, per dimenticare la nostra natura fragile e umana.
Eppure c’è qualcosa di grande in un figlio; non lo so di mio, ma vedo mio padre e mia madre. Non è di certo una cosa facile, soprattutto una volta che si è un po’ cresciuti come me e diventa tutto più complicato, dai rapporti famigliari fino ai primi acciacchi fisici dei genitori, ma questa è la vita vera. Una vita che non si riempie di brividi dell’ultimo istante, che sa fare tesoro non solo delle esperienze violente e vivide, ma anche dei quelle più scialbe e faticose, che le sa riempire di dolcezza e affezione; che le sa affrontare e non deve fuggirle cercando rifugio nella continua ricerca di nuove esperienze o di quelle che ci vengono spacciate per tali; che non ha la necessità di cercare la gratificazione del proprio io nel raggiungimento di un obiettivo, ma cerca ciò che riempie veramente l’anima. La cultura del divertimento, della carriera e del denaro di fronte a questo è molto forte, ma non prevarrà perché di una sola cosa sono certo: questa cultura è arrivata ad un limite tale che non potrà passare la generazione, non potrà essere tramandata di padre in figlio.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.