“Ordinarie follie” di Edoardo Dantonia

Mio nonno non è esattamente la persona più affabile di questo mondo. A volte mi sovviene il pensiero che il modo di dire che suona più o meno così: “Faresti ammattire anche un santo”, sia stato coniato apposta per lui. Ma sarei ingiusto se lo condannassi per questo, più che altro perché la gran parte delle volte i suoi modi di fare che considero sbagliati mi servono, per contrasto, a comportarmi bene in prima persona. E d’altronde, lui viene da tutta una serie di esperienze che, per quanto spesso io perda la pazienza, mi impediscono di giudicarlo troppo malamente.
In ogni caso a volte mi capita di ravvisare anche in lui qualche buona filosofia, nonostante tutto. Qualche giorno fa, ad esempio, mi ha telefonato preoccupato per aver perso un mazzo di chiavi. Io so già che sicuramente le avrà appoggiate su qualche tavolo o riposte in qualche tasca di cui non ricorda nemmeno l’esistenza.
“Hai provato a guardare in auto?”
“Sì, certo”
“E nelle tasche dei pantaloni?”
“Anche”
“Pure nel borsello?”
“Sì sì, pure lì”
“Allora non so che dirti, riprova a guardare negli stessi posti. Fai mente locale sui luoghi in cui sei stato”
“Eh ok, ora guardo ancora”
Riaggancio. Dopo pochi minuti squilla di nuovo il telefono e io, sbuffando, pigio il tastino verde.
“Dimmi”
“Niente, volevo dirti che le ho trovate, le chiavi”
“Ah… Ok, bene”
“Allora ci vediamo domani, ciao, buonanotte”
“Notte”
Riaggancio nuovamente.
Lì per lì la cosa mi è sembrata a dir poco assurda: perché richiamarmi soltanto per dirmi che ha ritrovato le chiavi? Poteva attendere domani. Poco dopo, però, mi è giunta una vera e propria illuminazione, una presa di coscienza che qualcuno potrebbe attribuire ad un vero e proprio intervento divino: perché una persona sana di mente dovrebbe fare una telefonata per annunciare una cosa brutta (come perdere le chiavi) e non farne una per annunciare una cosa bella (come ritrovare le chiavi)? Questa è la pessima filosofia che sta dietro al giornalismo di cronaca, il quale tanto si spende ad elencare disgrazie e brutture quanto rimane muto su fatti che invece meriterebbero d’essere sbandierati come proclami imperiali. Il giornalista medio infatti non si sognerebbe mai di sostituire l’articolo in cui racconta di un brutale omicidio con uno in cui parla di come, nello stesso istante, non siano avvenuto centinaia di potenziali altri omicidi. Eppure quest’ultimo è un caso di gran lunga più mirabile e degno di essere trattato. Ma, come disse Chesterton, non si può pretendere molto altro dal giornalismo: è nella sua natura rimanere in silenzio di fronte alla bellezza e urlare riguardo alla bruttezza. Allora è sacrosanto che almeno noi uomini comuni, noi che siamo salvi dai doveri di cronaca, conduciamo una ribellione nei confronti di questa cattiva filosofia, annunciando più che possiamo che ancora viviamo e che ancora il mondo gira con noi, proclamando con solennità di aver messo un piede dietro l’altro senza intoppi fino alla nostra dimora, incidendo su ogni muro di aver ritrovato le chiavi di casa che avevamo perso. Insomma, è necessario, in questa epoca di pessimismo, contrapporre alla filosofia della cronaca la filosofia della buona novella.