Si dice che chi colpisce per primo colpisca due volte, ma è anche vero che non è importante quanto si colpisca, se non si è quello che rimane in piedi. E, se la storia di Leroy Grumman ha qualcosa da insegnarci, è che per vincere non occorre arrivare primi.
Un garage
Ingegnere meccanico dal 1916 Grumman, dopo essersi arruolato nella Naval Reserve riuscì, tacendo sulle sue condizioni fisiche, a ottenere il brevetto da pilota, anche se fra questi di gran lunga non era il più brillante. Finita la guerra, fece la sua Loening Aeronautical Engineering per una decina d’anni. Diversamente dal precoce Yakovlev che aveva costruito il suo primo velivolo a 18 anni, Grumman lentamente fece la sua carriera nell’azienda fino al 1929. Venne la Grande Depressione e la Loening fu acquisita dalla Keystone, la quale, visti i bei tempi, decise di chiudere lo stabilimento di Manhattan.
Grumman poteva continuare la sua carriera spostandosi in Pennsylvania, oppure trovarsi un altro lavoro. Decise che entrambe le opzioni gli stavano strette e con un paio di colleghi, ipotecando la casa, fondò una sua compagnia, affittando un garage che precedentemente apparteneva ad uno showroom di auto. Concentrandosi sugli aerei navali, in quattro anni consegnava il primo alla Marina statunitense.
La corsa sulle acque
I primi aerei Grumman non erano esattamente eccezionali e rimasero un po’ indietro rispetto ai concorrenti e, soprattutto, ai rivali. Nel frattempo il Giappone, principale rivale nel campo aeronautico, nonostante avesse di suo dei grossi problemi a star dietro alla tecnologia occidentale, soprattutto nei motori, dimostrava di saper essere particolarmente innovativo. Grazie al genio di Jiro Horikoshi, infatti, nel 1936 la Marina giapponese metteva in campo il primo monoplano navale ad ala bassa. Lo stesso anno la Grumman consegnava il suo F3F. Il paragone tra i due aerei è abbastanza impietoso. L’A5M era più veloce, aveva migliori prestazioni di salita e riusciva incredibilmente ad essere più manovrabile del suo rivale, pur essendo questi un biplano. L’aereo di Grumman aveva sacrificato queste caratteristiche in cambio di resistenza, armamento relativamente pesante e un carrello retrattile.
Il successivo lavoro di Horikoshi, il leggendario A6M “Zero”, sembrava tracciare un ulteriore terrificante distacco fra le due nazioni in campo aeronautico. Nonostante fosse ancora poco corazzato, l’aereo giapponese ora disponeva di due cannoni da 20mm, e ovviamente il carrello retrattile era ormai lo stato dell’arte. Quello in cui Grumman era arrivato prima, però, lo aveva mantenuto nel suo nuovo modello, l’F4F Wildcat. Corazzato, bene armato, resistente, avrebbe presto dovuto confrontarsi col suo rivale.
I primi combattimenti furono abbastanza impietosi per gli americani. I giapponesi avevano potuto affinare le loro tattiche e i loro piloti nella guerra con la Cina e lo Zero era un ottimo aereo, estremamente manovrabile, leggero e dotato di un raggio d’azione molto più ampio del Wildcat.
Grazie ai cambiamenti nella tattica, alla lunga, si riuscì a far funzionare anche l’F4F, se pure a fatica. I giapponesi nel frattempo continuavano a migliorare lo Zero, grazie a nuove configurazioni delle ali, migliori motori, aumento considerevole delle munizioni per i cannoni da 20mm; tuttavia non avevano ancora vinto la corsa sulle acque, e Grumman lo sapeva.
Abbandonati i tentativi di migliorare l’F4F si dedicò ad un nuovo progetto, ripartendo quasi da zero. Era il momento dell’F6F Hellcat; dotato di un motore spaventoso e struttura molto solida, il nuovo aereo, dopo un attimo di stallo iniziale, si dimostrò un vero gioiello. Il suo unico difetto probabilmente rimaneva l’estetica, ma in guerra la cosa tende ad importare piuttosto poco.
Ancora in ritardo…
Grumman però non stava seduto sugli allori: altri due gioiellini erano in preparazione, anche se lo sviluppo fu terminato solo dopo la fine della guerra. L’F7F poteva essere un eccellente caccia pesante, mentre l’F8F, inizialmente pensato per il compito specifico di fermare i kamikaze, era sostanzialmente una versione alleggerita dell’Hellcat per migliorarne le prestazioni. Quest’ultimo fu tranquillamente usato nella guerra di Corea quando l’era dei jet era già iniziata, ed è tutt’oggi amato per le sue prestazioni in velocità.
Ma appunto i motori a pistoni erano ormai cosa del passato. La novità erano i jet e tutti si lanciarono a sperimentarci sopra. Il nostro ingegnere, come sempre, si prese il suo tempo, stando a guardare mentre la McDonnel tirava fuori l’F2H. Per la guerra di Corea però aveva già raggiunto e superato il suo avversario con l’F9F Panther, poi modificato (ancora durante la guerra) cambiando le ali in una configurazione a freccia nell’F9F Cougar.
L’ultimo gatto
Dopo una breve serie di vicissitudini che videro l’F10 uscire di scena perché, stavolta, troppo in anticipo, e l’F11 vedersi limitato da leggi antitrust, la Grumman si prese del tempo per dedicarsi al suo ultimo gioiello indiscusso.
Riprendendo il concetto delle ali a geometria variabile dell’F10, condendo il tutto con gli ultimi ritrovati tecnologici e i dati che arrivavano dalla Guerra del Vietnam, l’azienda raggiunse il suo apice, l’F14 Tomcat.
Elegante, veloce, manovrabile, capace di mettere in campo gli ultimi sistemi d’arma, si è conquistato un’enorme e meritata popolarità nel grande pubblico, grazie a Top Gun. Quanto alla marina, semplicemente lo tenne in servizio per 30 anni, contribuendo a renderlo iconico.
Alla sua morte nel 1982, Grumman era il signore incontrastato degli aerei navali, dopo aver a lungo inseguito avversari e rivali, aver tardato e pur tuttavia trionfato, perché la fretta è una cattiva consigliera e, a volte, prendersi il giusto tempo è il giusto modo di arrivare al traguardo.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.