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La modernità ha ucciso l’amore

La modernità ha ucciso l’amore. L’ha preso, l’ha spogliato delle sue vesti, lo ha coperto di polvere e poi lo ha squartato, lo ha strappato dal nostro petto in modo indolore. È bastato pochissimo; è bastato insinuare qualche piccola affascinante parola nella mente degli uomini: realizzazione, sicurezza, compimento. E ai nostri occhi quelle parole sono piaciute; li hanno accesi di uno strano fuoco; di una promessa nuova per uomini vecchi.

La donna per l’uomo e l’uomo per la donna sono ormai solo una possibilità fra le altre in quello che la modernità ha posto come obiettivo della vita. Ma quel che è peggio non è il ridurre l’amore ad un modo fra i tanti di godersi la propria esistenza. Dopo aver fatto questo, la modernità lo ha posto su di uno scaffale polveroso in attesa di un non meno polveroso acquirente ed una frotta di antiquari gli si è radunata attorno.

Non amano coloro che credono l’amore un modo di godere; non amano coloro che credono l’amore un modo buono e giusto di far le cose alla vecchia maniera. Non amano coloro che amando l’amore cercano il compagno perfetto per una vita ugualmente imperfetta. Non amano coloro che cercano il marito ideale, forte e virile o la donna perfetta massaia e gentile; e non amano coloro che cercano piacere e compagnia allegra, senza andare al fondo della promessa che l’amore custodisce. Non amano coloro che ossessivamente cercano l’amore, come non amano coloro che ne fanno una droga per sentirsi vivi, come non amano coloro che hanno il mito della famiglia.

L’amore non è un nido sicuro in cui riposare, protetti dal proprio sposo; e non è neanche vivere felici e contenti, liberi da ogni fatica e fastidio con la persona che si ama. Amare è morire. Non è ardere, è sanguinare; o per lo meno essere disposti a farlo per chi si ama. E non si tratta di costruire una casa in cui rifugiarsi: è costruire una fortezza con la cazzuola in una mano e la spada nell’altra, certi solamente del dono che è l’altro a noi. Essere grandi, essere una bella coppia, essere felici, star bene, son tutte cose belle e meritevoli, ma non possono essere la ragione per cui scegliamo una persona. Solo un raffinato e aerostatizzante idealista, oppure un narcisista feroce, possono chiamare amore lo sfruttare l’altro per sé, che si tratti dell’accrescere la propria autostima o sistemarsi. D’altra parte, fare il bravo fidanzato o il bravo sposo non è un’opzione contemplata, se non da chi preferisce rinchiudersi in un’armatura di regole per non vivere. Amare è camminare, lottare, sanguinare insieme verso un destino comune, senza temere nulla e nessuno; ed è questo che nella nostra ricerca di libertà e certezze abbiamo ucciso.

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Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.

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