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Il principe dei Draghi e del politically correct

Lo High Fantasy è uno dei generi che ormai ci si aspetta di vedere sempre meno. Lo si poterebbe considerare ormai esaurito e stantio, banale nella maggior parte dei casi, e sostanzialmente appesantito enormemente dall’eredità inarrivabile dei grandi di questo genere. Ciononostante Netflix ha deciso di provarci con “Il principe dei Draghi”.

La grafica non è delle più accattivanti, la storia non si colloca fra le più originali, dialoghi spesso infantili, eppure la prima stagione funziona in modo sorprendente. Lo scopo della compagnia di piccoli eroi è di riportare il principe dei Draghi racchiuso nel suo uovo fino a Xadia, la terra della magia e scongiurare così l’esplodere di una guerra fra uomini e creature magiche. Non occorrono straordinari cliffhanger e colpi di scena, né una particolare complessità dell’intreccio, perché i personaggi, la loro connotazione e la loro crescita sono interessanti a sufficienza da far proseguire la visione. L’opposizione bambini adulti può sembrare banale, ma regge, così come la ricerca della pace e gli intrighi. Poi però il disastro.

La seconda stagione pare cominciare col fiatone. L’intreccio si complica, producendo confusione più che interesse. Soprattutto però la linea che distingueva il bene dal male inizia a tremolare e sfumarsi, perdendo sempre più consistenza. Se prima i buoni avevano un compito e i cattivi erano quelli che si opponevano loro qui comincia ad essere chiaro che ognuno persegue i suoi scopi che ritiene essere i migliori. Forse questo potrebbe aggiungere realismo (e non lo fa) ma di sicuro non fa che virare su un relativismo che poco si abbina con la promessa iniziale di una battaglia del Bene contro il Male. I personaggi, a parte qualche piccolo colpo di testa, si banalizzano e non vengono più seriamente approfonditi. Le scelte difficili spariscono, la coerenza interna della struttura narrativa vacilla in più punti, la metafisica del mondo perde totalmente credibilità. Il problema di fondo che aveva scatenato la guerra, la Magia Oscura, viene continuamente sbolognato senza che si capisca perché le creature di Xadia la ritengono sbagliata e invece gli uomini no. Se ne parla come un abominio, ma non si comprende a cosa conduce, lasciando un sapore strano nella bocca dei curiosi.

Forse per compensare queste mancanze, vengono introdotte ex abrupto e senza giustificazione narrativa concessioni non indifferenti al politically correct. Se già nella prima stagione si parlava un poco di pregiudizio razzista tra elfi e umani (bilanciato dall’una e dall’altra parte), nella seconda stagione si strizza l’occhiolino al mondo LGBT introducendo due regine genitrici accoppiate fra loro, del tutto non necessarie allo sviluppo della storia; anzi paiono proprio una marketta appiccicata con poca maestria per toccare il tema e levarselo dai piedi in fretta. Lo spettatore non vede l’ora che queste parti finiscano e si torni alla storia principale, da tanto la faccenda è incastrata bene nella trama. Il tutto viene poi rilanciato con una coppia di elfi maschi nella terza stagione, senza che ci sia alcun disclaimer nelle etichette della serie, cosa che forse un genitore avrebbe apprezzato e che diminuisce la fiducia nei confronti di Netflix, quasi non fosse già minata a sufficienza dai continui aumenti di prezzo e cambi unilaterali degli accordi.

Alla fine, nonostante i tentativi di renderla di nuovo funzionante, la serie si arena in un coacervo di banalità irrisolte, tanto da chiedersi perché ci ha portati fino a quel punto e la certezza che il tempo sprecato si sarebbe potuto usare meglio. Se si vuole un fantasy ben fatto, meglio leggersi Il fiume di fuoco che passare il tempo a sorbirsi Il principe dei draghi.

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Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.

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