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L’Esperienza (letteraria) del mito in C. S. Lewis #1

«A fare del mito un mito […] è […] ciò tramite cui esso raggiunge ciò che dell’umano non può dirsi se non in modo che prescinde dal tempo, tanto quanto serenamente: la passione, il dolore, il felice incontro e la gioia che arreca tormento»[1].

Abbiamo osservato nel precedente articolo che l’esperienza della Gioia sorgeva in Lewis in seguito all’esposizione a una bellezza “romantica”, la cui via principale è stata individuata nelle esperienze letterarie in generale e della mitologia nordica in particolare.

Parlando di mito Lewis non si riferisce esclusivamente al vasto mondo della narrazioni fantastico-sacrali e religiose sull’Origine. Nel suo An Experiment in Criticism, Lewis ricorda come il greco mythos indichi qualsiasi tipo di storia[2].

Lewis infatti non classificherebbe come “mitiche” tutte le storie appartenenti alla mitologia classica, poiché non tutte posseggono la “qualità mitica”. Altre storie che non sono antropologicamente classificabili come miti in quanto appartenenti ad epoche completamente civilizzate, sono dotate della “qualità mitica”[3].

Con mito egli intende indicare molto più generalmente storie di fantasia dal valore inesauribile, storie che mai «si potrebbero […] sostituire […] con un semplice riassunto dei fatti, con una sinossi»[4], intende indicare «un tipo particolare di storia che ha valore in sé stessa indipendentemente da una sua espressione in un qualsiasi lavoro letterario»[5].

In questo saggio Lewis intende analizzare del mito non tanto il contenuto sacrale-religioso o il significato antropologico, quanto l’esperienza a cui si è esposti nel ricevere la storia in esso narrata. Il significato di mito a cui Lewis fa riferimento è qui da considerarsi quindi distaccato dall’eventuale rituale a cui sarebbe immediatamente ricollegato[6].

Il mito (o la storia qualitativamente mitica) è extra-letterario
Lewis ricorda che i grandi miti a tutti gli effetti non giungono a noi se non in forma verbale. Ma ciò è accidentale. Un mito come quello di Orfeo ed Euridice muoverebbe il nostro animo anche nel caso in cui, rappresentato in scena, fosse muto, privo di parole, mimato[7].

I miti non hanno propriamente la loro esistenza nelle parole. La loro consistenza non sono le parole. Esse in un certo senso sono solamente un medio.

L’opera non solo significa qualche cosa ma è essa stessa qualcosa. Non è semplicemente il significato astratto di qualcosa di detto (logos), ma in un senso più eminente è poiema, ovvero qualcosa di generato[8].

Nella poesia le parole costituiscono il corpo della poesia stessa e il “contenuto” ne è l’anima; per quanto riguarda il mito, è l’immaginazione di ciò che succede, l’evento, a fare da corpo, mentre l’anima è costituita da qualcosa di impossibile ad essere espresso a parole[9].

È solo attraverso l’essere poiema del mito che il suo significato intrinseco, che la sua realtà – che passa certamente attraverso il logos – può raggiungerci.

Ciò che il mito comunica attraverso la ragione, l’immaginazione e la parola, supera, trascende il medio attraverso cui viene comunicato. È la comunicazione di qualcosa di misteriosamente sostanziale. Come nella comunicazione tra persone il linguaggio è solo il medio e ciò che viene comunicato sono le persone stesse (passando certamente attraverso il medio del linguaggio), così il mito – in un senso prettamente analogico – comunicato attraverso il linguaggio porta al lettore l’espressione di qualcosa avente realtà e consistenza proprie e sempre eccedenti.

È un legame produttivo dell’opera dell’immaginazione con il suo prodotto, ovvero arte, sub-creazione[10].

Per Lewis, nel gioire di un grande mito noi non stiamo attaccati alle parole pretendendo, alla fine del racconto, di carpirne il “significato” o la “morale” che starebbe rappresentando o implicitamente affermando. In un caso simile otterremmo l’estrinsecazione del significato dalla storia narrata: un’astrazione appunto.

Il mito è sempre ‘fantastico’ (fantasia letteraria)
Con il termine fantasia Lewis intende riferirsi a una costruzione edificata dall’immaginazione[11] cosciente della persona allo scopo di essere piacevole, protratta con moderazione e posizionata nel giusto ordine, insieme ad attività quotidianamente più importanti[12].

Con questa prima definizione vengono escluse sia una fantasia intesa come  costruzione immaginaria illusoria confusa con la realtà (illusione), sia una fantasia intesa come una costruzione immaginaria dannosa seppur non confusa con la realtà, ma protratta continuamente nel tempo fino a rendere la vita insipida e il soggetto incapace di volere, pur desiderandola, una felicità non immaginaria («sogno patologico»[13]).

La fantasia intesa correttamente è quello che Lewis definisce come «‘sogno normale’»[14].

Esso può essere di due tipologie: «Egoistico»[15] o «Disinteressato»[16].

Il primo tipo è rappresentato dal «sognatore a occhi aperti»[17] eroe sempre protagonista dei suoi sogni; il secondo tipo è rappresentato dal sognatore a occhi aperti presente come narratore o addirittura nemmeno presente, comunque completamente immerso nell’osservare quel mondo come dall’esterno[18].

La narrativa è il livello più profondo della fantasia: la fantasia letteraria.

In questo tipo di fantasia il sognatore a occhi aperti non solo osserva il mondo immaginario che gli si para innanzi, ma lo inventa, lo costruisce, lo popola continuando a rimanervi al di fuori[19]. Nel caso in cui il sognatore in questione abbia talento si passa all’invenzione letteraria o mitopoiesi.

La distinzione tra i tipi di sognatori permane anche nel caso in cui si passi dal “compositore” di sogni o scrittore  al “lettore” di invenzioni letterarie.

In quanto attività protratte per un tempo continuato in un “luogo” che cessano di essere momentaneamente la realtà che ci circonda, Lewis ricorda come la fantasia, il sogno e l’intera letteratura comportino effettivamente un distanziamento, una alienazione (intesa nel solo senso letterale) e, in un certo senso, una evasione[20].

Questo distanziamento, questa evasione avviene ogni qual volta ci approcciamo a un qualsiasi testo sia esso scientifico, storico o fantastico appunto.

Il lettore si trova a essere immaginativamente dentro il mondo letterario: è una esperienza molto simile al sogno. A differenza del sogno a occhi aperti e del normale sogno di quando si dorme, in questo caso è come se si fosse in un sogno il quale però appartiene ad un’altra mente.

È secondo tutte le apparenze un’evasione «dall’attualità immediata, concreta»[21].

Non sorge alcun problema finché osserviamo il fenomeno della fuga da: essa avviene in ogni lettura. Problematica ben più importante è verso dove sia orientata l’evasione, a che cosa stiamo andando incontro[22].

Sorge quindi spontanea la domanda: perché andare verso storie narrate e romanzate, verso il mito e la fantasia?

Attraverso il mito ci è possibile essere esposti a un’esperienza reale, in modo “assolutamente concreto”, di ciò che altrimenti apprenderemmo per astrazione, come attraverso un principio astratto: «ciò che fluisce dentro di voi dal mito non è la verità [compresa per via astrattiva], ma la realtà (la verità è sempre in relazione a, riguardo a qualcosa, mentre la realtà è quel qualcosa che la verità riguarda), e perciò ogni mito diventa padre di innumerevoli verità sul piano astratto. Il mito è la montagna da dove sgorgano tutti i differenti ruscelli che diventano verità quaggiù nella valle. […] O, se preferite, il mito è l’istmo che connette il mondo peninsulare del pensiero con quel vasto continente al quale realmente apparteniamo. Non è come la verità, astratto; né è legato al particolare come l’esperienza diretta»[23].

Il mito attraverso l’immaginazione dà la possibilità – al lettore che previamente abbia deciso di “farsi da parte” – di entrare momentaneamente nel mondo narrato e in un certo senso vivere assieme ai personaggi le loro vicende.

Il lettore se non si fa da parte in un atteggiamento di accettazione che lasci spazio all’opera di rivelarsi, alla fine troverà sempre e solo sé stesso[24].

La partecipazione umana del lettore al racconto è certamente necessaria per entrare nella storia del mondo che i personaggi vivono, ma non deve essere intesa alla maniera della sostituzione. Non deve essere intesa come una trasposizione della propria vita in quella dei personaggi narrati. In una tale immedesimazione egoistica non si godrebbe più dell’opera ma la si starebbe sfruttando allo scopo del puro piacere tutto incentrato su di sé[25].

La narrativa rettamente intesa è invece un’introduzione a un’esperienza altra dalla nostra, ma a cui noi prendiamo parte come compagni di viaggio dei personaggi coinvolti[26].

«È erleben: noi diventiamo questi altri esseri. Non solo e principalmente per vedere come sono, ma per vedere che cosa sono, per occupare, momentaneamente, il loro posto nel grande teatro, per usare i loro occhiali e vedere quali intuizioni, gioie, terrori, meraviglie o allegria ci si svelano guardandovi attraverso»[27].

Il mito ci dà la possibilità di conoscere, vivere e vedere innumerevoli realtà attraverso gli occhi degli altri[28]. È un’esperienza di ampliamento di sé stessi e contemporaneamente di annullamento di sé stessi: accettando umilmente di farsi da parte per ricevere il mito il lettore ne uscirà accresciuto. Accettando di perdersi si ritroverà[29].

«L’esperienza letteraria guarisce la ferita dell’individualità senza indebolire la prerogativa dell’individualità stessa […]. Leggendo le grandi opere della letteratura divento migliaia di uomini e, allo stesso tempo, rimango me stesso. Come il cielo notturno della poesia greca, vedo con una miriade di occhi, ma sono sempre io a vedere. Qui, come nella religione, nell’amore, nell’azione morale e nella conoscenza, supero me stesso; eppure, quando lo faccio, sono più me stesso che mai»[30].

Questa concezione del fantastico trova un antecedente di primo rilievo nel suo già citato maestro MacDonald. Nella prefazione all’antologia da Lewis pubblicata dedicata all’autore scozzese riporta come la stranezza del mondo macdonaldiano consistesse nell’umiltà e nella semplicità. Assomigliava a un sogno stranamente viglie. Per quanto riguarda il libro che lo colpì come una folgore Phantastes: A Faerie Romance, Lewis afferma che «aveva una sorta di innocenza fresca e mattutina e anche, in modo inequivocabile, una certa qualità di Morte, una buona Morte. L’effetto che ebbe su di me fu quello di convertire, addirittura di battezzare (ecco dove la Morte entra in gioco) la mia immaginazione»[31].

Lewis attribuisce quindi all’immaginazione un ruolo fondamentale nella conoscenza: l’immaginazione è paragonabile a un organo avente la funzione di assaporare, di gustare, di raccogliere e in questo senso di conoscere il significato della realtà.

Se la ragione è l’organo disposto alla conoscenza della verità, l’immaginazione è l’organo disposto ad apprendere – nel senso sopra esposto – il significato. L’immaginazione così considerata è la condizione – e non la causa – della conoscenza della verità[32].

Come abbiamo visto con il termine “significato” Lewis intende qualcosa di molto più concreto, di intrinseco rispetto ad una mera comprensione di essenza. A onor del vero sarebbe paragonabile in modo analogico al sapore di un cibo succulento, alla melodia di una buona musica, trasposto nel mondo e nella drammatica delle azioni dei personaggi.

L’esperienza può essere triste o gioiosa, ma è sempre seria e soprattutto solenne.
Altra caratteristica parzialmente anticipata nella precedente è la solennità del mito. La ricezione di un grande mito è percepito come qualcosa di molto importante, quasi sacro. È praticamente impossibile afferrarne pienamente il significato, interiorizzarlo intellettualmente e qualunque sforzo per concettualizzarlo o allegorizzarlo: anche «dopo che sono state tentate tutte le allegorie, il mito continua a superarle»[33].

In forza di ciò il mito resterà un oggetto di contemplazione costante nella vita del lettore. Come la caratteristica primaria del mito è quella di essere extra-letterario, così «il comportamento di chi ama il mito è extra-letterario»[34].

Quella di Lewis è una concezione di esperienza letteraria che implica una partecipazione umana integrale da parte del lettore, intesa come immedesimazione e incontro, partecipazione all’opera carica della memoria della propria personalissima esistenza[35]. È un esperienza al termine della quale il lettore entra per poi uscirne profondamente cambiato[36]: in ogni caso, poi, torna alla realtà, ma nulla sarà più come prima. Il mito continuerà a lavorare incessantemente nella memoria, nell’immaginazione e nello spirito del lettore[37].

«Il ragazzo che ama il mito […] farà questa esperienza: “Tutto questo non mi lascerà più. Non mi abbandonerà mai. Queste immagini hanno affondato le radici nel mio spirito”» [38].

Il merito della grande letteratura è quello di curare la ferita dell’individualità, perché, a differenza delle esperienze di soffocamento emozionale, non elimina la particolarissima e personalissima esistenza dell’individuo.

Assieme alla grande letteratura infatti, autotrascendendo me stesso nell’immedesimazione, non solo non cesso di essere me stesso, ma mi riapproprio ancora di più del mio io.

[1] Chrétien 2010, p.69.

[2] Cfr. EIC, p.65.

[3] Cfr. EIC, p.66.

[4] EIC, p.65.

[5] Green & Hooper 2003, p.189.

[6] Cfr. EIC, p.66.

[7] Cfr. EIC, p.105.

[8] EIC, p.105.

[9] Cfr. GMD, Kindle Edition, pos. Preface.

[10] Cfr. Tolkien 2000, p.62.

[11] L’immaginazione è qui intesa non semplicemente nel senso classico, non semplicemente come la capacità dell’intelletto di generare e di produrre rappresentazioni o immagini mentali, attraverso associazione o composizione di cose realmente esistenti, di enti esistenti solo a livello intellettivo, differenziantesi dalla semplice facoltà di produrre immagini come esercizio necessario per la conoscenza del significato. Cfr. CLIII, p.683. Ma ancor più è intesa – nel suo senso più elevato e come intesa anche da Samuel Taylor Coleridge – come un potere vivificante e agente primario di tutte le percezioni umane.

[12] Cfr. EIC, p.74.

[13] EIC, p.74.

[14] EIC, p.75.

[15] EIC, p.75.

[16] EIC, p.75.

[17] EIC, p.74.

[18] EIC, p.75.

[19] Cfr. EIC, pp.75-76.

[20] Cfr. EIC, pp.91.

[21] EIC, pp.92.

[22] Cfr. EIC, pp.92.

[23] CSLEC, “The Myth Became Fact”, Kindle Edition, pos. 2663-2668.

[24] Cfr. EIC, p.44.

[25] Cfr. EIC, p.67, p.77.

[26] Cfr. EIC, p.164.

[27] EIC, p.164.

[28] Cfr. EIC, p.165.

[29] Cfr. EIC, p.163.

[30] EIC, p.165.

[31] GMD, Kindle Edition, pos. Preface.

[32] Cfr. GMD, Kindle Edition, pos. Preface.

[33] EIC, pp.66-67. Concezione questa già presente nel Lewis pre-cristiano come conferma questa lettera spedita a Tolkien (poco tempo dopo aver fatto la sua conoscenza) a commento di un suo poema: «Le due cose che emergono con evidenza sono il senso di realtà dello sfondo e il valore mitico: poiché l’essenza del mito è che esso, per il suo creatore, non dovrebbe avere il minimo sentore di allegoria ma, pure, dovrebbe suggerire allegorie incipienti al lettore», Carpenter 1985, p.45.

[34] EIC, p.71.

[35] Cfr. EIC, Bajetta “Rimanendo me stesso”: C.S. Lewis e la critica letteraria, p. 21.

[36] Cfr. EIC, p.162.

[37] EIC, pp.41-42. «Tutte le volte che torniamo ad esso, dopo è la nostra vita che è nuovamente luminosa, vediamo meglio quello che già c’era», Edoardo Rialti, La realtà in trasparenza, Meeting per l’amicizia tra i popoli 2007.

[38] EIC, pp.41-42.

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Francesco Tosi: 1986 Rimini, avevo così voglia di vivere che sono nato prima di nascere (al quinto mese), poi ho continuato a nascere e rinascere nel corso della mia vita, in spirito, acqua e sangue.
Filosofo per forma mentis e formazione, letterato e Teo-filo per passione, editore digitale per professione, fanno di me un cultore del verbo e servitore della parola (altrui).
Autore di tesi di laurea su un cardinale della Chiesa Cattolica, ex gesuita, von Balthasar, e su un letterato anglicano, Lewis che hanno in comune una visione teo-drammatica dell’esistenza, sto ultimamente dilettandomi nella loro revisione e pubblicazione.

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