Se qualcuno dei miei pezzi raggiungesse mai una certa notorietà, il mio nome finirebbe presto ad essere accompagnato dal sospetto che io sia un nemico del mondo accademico. In vista di una tale remota eventualità mi preme fugare ogni dubbio: lo sono. Sia chiaro, sono inimicus e non hostis, ma questo lo dico a mia discolpa, solo per evitare le possibili conseguenze legali.
La ragione di tutto questo è che la struttura accademica, già nemica dell’uomo, è diventata da tempo nemica anche della conoscenza. Ciò ovviamente a meno che non si tratti di una conoscenza minuta e, non solo inutile, ma eminentemente noiosa. E fin qui nulla di nuovo, il mio lettore era già, oppure no, d’accordo con me. Ora, in questo proscenio, occorre mettere le dramatis personae. Forse un giorno mi dedicherò anche agli allievi, che sono tutt’altro che innocenti in questo gioco; incominciamo però dai rinomati accademici che ne sono gli abitatori meno effimeri.
Il Luminare
L’unica ragione per cui il mondo accademico non è sommerso da una pioggia di fuoco è che resistono ancora pochi giusti in grado di placare l’ira divina e ministeriale con la loro sola presenza.
Sia chiaro, il luminare non è necessariamente noto per le sue buone maniere, per la sua posizione sociale, per la sua voglia di lavorare o per la sua integerrima condotta. Molti accademici di questo tipo sono campati sul lavoro di dottorandi e ricercatori e hanno baroneggiato a lungo nelle aule delle Università, prima e dopo il ’68. Altri, più discreti e onesti, si sono spesi alacremente, spesso con pochissime risorse a disposizione e lavorando in romitaggi spersi al sesto piano di edifici affittati dalla facoltà per metterli da qualche parte, per trasformare il loro lavoro in qualcosa di grande e di concreto.
Il luminare, però, non è definito da nessuno di questi fattori. Ciò che lo definisce è che le sue ricerche e le sue tesi, incredibile a dirsi nell’accademia odierna, hanno senso. Anzi, hanno talmente senso da essere illuminanti ed aprire la strada a ricerche ulteriori.
Chiaramente gli accademici appartenenti a questa categoria sono pochi e non potrebbe essere altrimenti. Per essere un luminare ci vuole del genio e per far il genio ci vogliono visione, creatività e intuizione, cose rare già di per sé, ancora più rare se combinate.
Va notato che il luminare non ha alcun merito riguardo alle sue capacità, se non quello di applicarle; ma un tale individuo è quello davvero necessario a guidare una qualsiasi impresa umana. Per assurdo che sembri, il mondo è degli artisti da sempre, e non cesserà mai di esserlo, per il semplice fatto che sono gli unici in grado di produrre nuove idee.
L’autistico
Questo secondo tipo invece è decisamente definito da quello che fa e da come lo fa. Esiste un genere di accademico che non è stato benedetto dalla creatività e ha dovuto usare il duro lavoro e la mania ossessivo-compulsiva per accedere al suo ruolo. Non è in grado di generare nuove idee e, una volta diventato associato, ha già rinunciato da tempo ad averne di proprie.
L’Università però gli chiede di essere originale; che fare? L’unica alternativa alla rinuncia al cospicuo assegno mensile è di far diventare ricerca qualcosa che ricerca non è. Qui l’autistico ha la sua ossessione per l’organizzazione e il metodo dalla sua parte. Essendo per sua natura totalmente privo della capacità di sorprendersi, non ha difficoltà a credere interessante qualcosa che non lo è. Da qui si origina la miriade di ricerche su ogni tipo di quisquilie, dalle posizioni con cui facevano sesso i dinosauri, ai cavalli di legno che diventano navi. Una branca che esemplifica singolarmente la ripa discoscesa per cui sta franando l’accademia negli ultimi anni è quella degli studi di genere, che permettono a questi individui di indagare alacremente il sesso degli angeli.
Sia chiaro, sotto la direzione di un luminare, un autistico è un’arma portentosa. Le sue caratteristiche positive non saranno l’originalità o il senso di realtà, ma è un lavoratore indefesso e instancabile, atto al sacrificio estremo senza troppo bisogno di stimoli. Il problema è che avere dei soldati disciplinati che non cedono neanche sotto le cannonate è una benedizione, ma solo quando ci sono dei buoni generali. L’autistico può sviscerare qualsiasi argomento, ma se non viene guidato finirà immancabilmente a chiedersi se le more dell’Ecloga VI indicano che essa è ambientata in Agosto, come dice il tale studioso, invece che godersi lo splendore della scena pastorale (e farsi venire fame). Oppure si schiererà immancabilmente dalla parte del Pascoli sulla faccenda delle rose e delle viole in Leopardi, quia similes cum similibus, perché non sa distinguere tra uno che osserva la realtà, come appunto il Giacomo nostro, da uno che tenta di infilarla in un libro di botanica antiquato.
Il MIUR, ovviamente, essendo a sua volta popolato da individui di tal fatta, finanzierà ogni ricerca di tal genere, senza capirne né il limite, né la visione ristretta. L’importante è che l’accademico lavori e sempre; non che produca qualcosa di qualità. L’impiegato del ministero, che si fa un mazzo quadro ogni giorno per tutta la settimana, non può immaginare che uno non faccia nulla perché non ha nulla di intelligente da fare. Il suo lavoro, e lo sa bene, come ogni altro lavoro burocratico è tutt’altro che intelligente ed è per lo più fatto in modo da occupargli il tempo. Non avendo esperienza diversa, non può immaginare che esistano dei lavori dotati di significato e produttivi, e non ha i mezzi per distinguere gli uni dagli altri. Ne consegue che premia chi gli sembra più attivo, et voilà, ecco la ragione per cui vengono finanziati tanti studi al limite del ridicolo.
Il raccomandato
Terzo ritratto in questa piccola sfilata, il raccomandato. Ormai decano della sindrome dell’impostore, cerca in ogni modo di confondersi con l’una o l’altra categoria. Ora, siccome far finta di lavorare è molto più semplice che far finta di pensare, tende a finire immancabilmente nella seconda. E qui però sorgono i problemi.
Il lavoro dell’autistico è privo di originalità, ma è rigoroso e solido. Potrà non sapere che le rose e le viole, a seconda della varietà, possono anche fiorire nello stesso periodo, ma conosce a memoria tutti i passi del Pascoli in cui dice di no, e tutte le fonti che questi cita, note a piè di pagina incluse. Sarà pure un lavoro compilatorio e spesso smentito da una semplice conoscenza della natura umana o da uno sguardo fuori dalla finestra, ma porta ragioni e argomenti dotati di una loro logica esterna; il metodo insomma, non è sbagliato, sono sbagliati i fattori che vengono immessi nei suoi meccanismi.
Il lavoro del raccomandato è, come dire, diverso, nel senso più eufemisticamente negativo possibile. Se va bene, lui tra gli accademici non ci voleva neanche venire e ci si è ritrovato per la benemerita azione di un parente o per quella che in gergo tecnico si definisce “una gran botta di culo”; non ha mai avuto modo o bisogno di imparare un metodo, perché non è stato realmente messo alla prova. In qualche modo però dovrà pur arraffazzonarsi e, dato il bacio della dea Fortuna, trova il modo di stare a galla, l’unico che gli è possibile: imitare.
Il lavoro dell’autistico, si può ricavare da quanto sopra, è per lo più derivativo. Questo non lo rende buono, ma spesso necessario e un luminare può trarre qualcosa di estremamente interessante anche da questo. Il lavoro del raccomandato, abbiamo detto, è imitativo. Vede l’opera voluminosa dell’autistico, ci capisce più o meno quello che ci capiscono tutti, ovvero niente, e provvede a scriverne una simile, cercando di arrivare alle stesse conclusioni. Il problema è che il raccomandato ha senso della realtà, sa cosa è importante e cosa no, dunque per arrivare a delle conclusioni sbagliate (celebrate dal mondo accademico) non ha altra scelta che corrompere il metodo. Il pastrocchio che ne può venire ciascuno lo può immaginare, soprattutto se si ricorda che il raccomandato avrà degli allievi, che con tutta probabilità rientreranno nella categoria precedente.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.