Skip to content

Scott Pilgrim vs Big Fish

Esiste una categoria di storie decisamente abusata che forse dovremmo chiamare delle metastorie, ma che è più che altro non narrativa; sono quei racconti che si interrogano su cosa sia in effetti il raccontare, e che risultano immancabilmente noiosi e pedanti, oltre alla loro straordinaria capacità di mancare completamente il bersaglio.

C’è qualcosa di misterioso nella creatività che non si può ridurre ad una regola e ancora meno ad una spiegazione, figuriamoci ad una spiegazione mascherata da racconto. Eppure è proprio questo che Big Fish cerca di fare. In soldoni quel che dice è che la fantasia serve ad abbellire la realtà, a colorarla dei toni epici di cui abbiamo bisogno, a complementarla rendendola piena. L’arte narrativa insomma viene equiparata allo spararla grossa, letteralmente, di fatto riducendola ad una versione un po’ più sana del disturbo istrionico di personalità. Il racconto è di fatto un modo per l’artista per darsi un senso, uno scopo, un valore, e basta; per gli altri resta forse un memorandum che la realtà è un po’ più strana e complessa di come ce la figuriamo chiusi fra le nostre quattro mura. Il fatto però è che tutto lo sforzo prodotto dalle storie per farci meravigliare non può che lasciarci insoddisfatti una volta che scopriamo la verità. Ci si ritrova nella posizione di chi ascolta il racconto di un pescatore e sa che dovrà dimezzare le dimensioni e il peso del pesce che quello ha preso per potersi avvicinare a come le cose sono andate davvero.

Quello che, insomma, Big Fish ci invita a fare è di cercare la verità dietro ai racconti e non la verità dei racconti, di scoprire cosa le storie non ci dicono invece che quello che ci vogliono dire; anzi, ci viene detto, assurdamente, che il significato sta proprio in quello che ci viene nascosto. In altre parole, l’artista è uno che per dire qualcosa parla di tutt’altro e spera che noialtri suo pubblico ci arriviamo in qualche modo. Il creativo alla fine è un genio incompreso, il che si accorda benissimo con l’allegra disposizione umana a seppellire i profeti e non pensarci più, e ancora di più con la meno allegra ricerca di qualcosa che dia senso al lavoro di un accademico.

D’altra parte, che Big Fish sia l’opera di un critico e non di un creativo si vede da un altro fattore, apparentemente scollegato, ma che invece è una sfaccettatura dello stesso problema. Il punto di vista da cui è raccontato è quello del figlio del creativo/fanfarone che però, di fatto, costituisce un personaggio vuoto. Sia chiaro, lo scopo era di mostrare il corrispettivo oggettivo delle sparate del padre attraverso una prospettiva, di fatto, imparziale; il problema è che nessuno è davvero super partes tranne forse il bellissimo critico che sta leggendo questo articolo. L’idea di punto di vista e di oggettività cozzano fra loro terribilmente; soprattutto cozzano con uno dei fondamenti alla base delle storie stesse, ovvero il concetto di personaggio. La ragione per cui non riteniamo un racconto il testo di Biologia che ci spiega la mitosi, nonostante stia di fatto capitando qualcosa e qualcosa di decisamente importante, è che non possiamo immedesimarci in una cellula, a meno di non personificarla. Non è un caso che le storie abbiano bisogno di protagonisti.

Il fatto è che le storie non sono fatte per rappresentare la realtà, ma per viverla. Ora il vivere presuppone delle limitazioni: non si può esperire più di una vita per volta. A questo ci serve il punto di vista, a questo la soggettività del protagonista: a introdurci nel racconto tramite la porta stretta della sua prospettiva. Big Fish rinuncia a questo e infatti alla fine non ci racconta nulla; si limita a creare delle situazioni che rievochino sensazioni simili vissute da noi e ci facciano quindi provare delle emozioni che avevamo già; è un impostore travestito da storia che si limita a spolverare quello che era rimasto nella soffitta del nostro cuore, senza farci provare nulla davvero.

E qui mi permetto di introdurre uno sfidante. Scott Pilgrim vs the World è un fumetto, e poi film, che riesce esattamente dove Big Fish fallisce, non solo perché è effettivamente una storia, ma perché di fatto è una storia banale con personaggi banali che fanno cose relativamente banali, il tutto inserito in una cornice epica. Cosa cambia da quello che abbiamo appena finito di massacrare? Questa cornice ha uno scopo. Non cerca di spiegare cos’è l’epica, la fa.

La trama è una banalissima storia d’amore tra ventenni, che si tirano dietro le loro storie pregresse e i loro traumi conseguenti. Il registro però è barocco e l’ambientazione diventa una sorta di videogioco in cui Scott deve sconfiggere i sette malvagi ex della sua bella combattendoli in modi assurdi. Tutta questa esagerazione però ci permette di vivere la componente emotiva che c’è dietro. Noi non siamo innamorati di Ramona, che di fatto è comunque un personaggio abbastanza scialbo, e volutamente, ma questo non ci impedisce di comprendere quanto grandioso sia un semplice amore, quanto superare il proprio passato sia un compito eroico, quanto il crescere e il migliorarsi siano una missione ai limiti dell’impossibile. Occorre un coraggio fuori del comune per non soffocare un affetto che sta nascendo; occorre una forza straordinaria per non lasciarsi divorare dalla propria paura e autocommiserazione e tutto questo Scott Pilgrim ce lo fa respirare insieme a lui.

Website |  + posts

Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.

Schegge Riunite