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L’inganno di Tunic

Tunic è un piccolo videogioco a mezzo tra Zelda e Dark Souls, con un’estetica caruccia e una quantità spropositata di enigmi. Funziona, è divertente e di intrattenimento; chi vuole può approfondirlo e scendere fino in fondo nel suo lore e worldbuilding attraverso la storia e gli enigmi che gli vengono presentati. Il finale però è in qualche modo deludente.

Questa parte conterrà degli spoiler. Di fatto il mondo di Tunic è stato costruito dalle volpi operose che sono venute a conoscenza di un piano “spirituale” dell’esistenza (The Far Shore) a cui sono in grado di accedere tramite dei portali a cui è data energia da degli strani pilastri. Andando avanti nel gioco si inizia a scoprire che questi pilastri sono dei sarcofagi che contengono delle anime distorte di volpi del passato (forse a causa di un minerale violaceo, ma il gioco resta molto vago).

Grazie al manuale che viene raccolto pagina per pagina dal protagonista si viene a scoprire che l’eccesso di utilizzo di questa energia ha indebolito la barriera fra i mondi, permettendo a creature del Far Shore di penetrare il mondo delle volpi e scatenare così una guerra. Le volpi riuscirono a contenere la minaccia relegando uno di loro (l’Erede) nell’inframondo fra le due dimensioni. Il protagonista (Ruin-seeker) è di fatto il futuro Erede designato che viene attirato dall’Erede attuale in modo che possa sostituirlo.

Il gioco presenta due finali come scelta: il primo consiste nello sconfiggere l’Erede e prendere il suo posto; il secondo di completare il manuale e condividerne la conoscenza con l’Erede, liberandolo definitivamente dalla sua prigione.

Ora qui si presenta un problema: se l’Erede serve a mantenere i due mondi separati, cosa accadrà una volta che viene liberato? D’altra parte si può davvero fidare del manuale? Su quali basi?

È comprensibile e lodevole che si offra questa alternativa, una più facile e violenta che però porta ad un finale amaro, un’altra più lunga e complessa, con una conclusione più soddisfacente. Ma è qui che casca l’asino. Se si deve rompere il proprio mondo per un finale soddisfacente qualcosa non funziona.

Per ottenere questo, d’altra parte, Tunic è costretto a ricorrere ad un piccolo inganno. Il protagonista è l’unica volpe viva presente che non sia un antagonista. E non si parla di antagonisti che semplicemente si mettono sul suo cammino, ma che lo attaccano a vista. Certo, si possono trovare molte scuse ad un tale espediente, soprattutto dato che si tratta di un videogioco indie, frutto del lavoro di pochissimi appassionati. Questo però non cambia che l’effetto che si ricava è che il sentiero del sacrificio, la sconfitta dell’Erede precedente, non ha davvero senso: non c’è nessuno per cui combattere. Gli unici personaggi non ostili che si incontrano sono fantasmi; a che serve proteggerli fino al sacrificio ultimo?

In fin dei conti Tunic vorrebbe dare un messaggio positivo, luminoso e pacifista. Ci riesce solo escludendo una parte della realtà. Non gliene si fa una colpa perché è davvero ben fatto e raggiunse lo scopo di intrattenere e far riflettere (alle volte fino allo scervellamento); forse però è tutto quello che ci si può aspettare, lo sforzo massimo del nostro tempo stanco e ultradogmatico. Un tempo che crede che lo scopo della vita possa essere accumulare conoscenza e condividerla con sconosciuti, invece che lottare per coloro che amiamo.

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Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.

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