Diversi anni fa’, quando ero ancora impelagato nei meandri delle Lettere Classiche all’Università, mi ritrovai a dover dare un soffertissimo esame di Letteratura Latina. Soffertissimo non tanto perché gli argomenti specifici del corso non fossero piacevoli e degni di studio, quanto piuttosto perché ad essi veniva affiancata la cosiddetta “parte istituzionale” che consisteva nello studio dell’intera letteratura latina in aggiunta.
Poco male, si studia e si va all’esame, direte voi (la mia hybris mi porta a pensare che qualcuno legga questo articolo a parte mia madre). Molto male, dicevo io, sapendo che sarei stato valutato su quella parte specifica da un preparatissimo assistente anguicrinito (nel caso ve lo chiediate, apparteneva al tipo accademico dell’autistico). Bontà sua, il sopradetto assistente anguicrinito, invece di chiedermi di Velleio Patercolo o qualche altro benemerito sconosciuto, decise di testare le mie conoscenze su Livio. Al che io ripetei paro paro quello che c’era sul libro, salvo essere interrotto quasi subito quando dissi che Tito Livio era in qualche modo critico del regime augusteo.
“Eh no” disse l’onnisapiente futuro accademico “Livio è anzi uno dei principali sostenitori del progetto augusteo di restauro dei valori aviti”. La cosa bastò a bocciarmi.
Ovviamente l’onnisciente aveva ragione. E, assai meno ovviamente, avevo ragione anche io.
Il fatto è che il mega-assistente galattico usciva fresco fresco da un convegno di più giorni sulla “Propaganda Augustea” in cui si documentava l’immenso sforzo di Augusto di tirare dalla sua parte una folta schiera di intellettuali che celebrassero le sue idee e i risultati che aveva ottenuto. Così almeno mi dicono, dato che io ai convegni non ci sono mai andato, dato che per incontrare un altro classicista puzzalnaso mi è sempre bastato guardarmi allo specchio, e anche lì molto spesso preferirei evitare. Tutti i punti portati avanti dalla conferenza però erano validi; anzi, erano dei dati di fatto e allo stesso modo è un dato di fatto che gli Ab Urbe condita liviani siano un importante contributo storico, parallelo a quello epico virgiliano, al tentativo di restaurazione del mos maiorum e soprattutto di ricrearne una mitologia di riferimento. Livio, in altre parole, sicuramente mostra di credere negli ideali in cui credeva Augusto. D’altra parte lo stesso Ottaviano lo reputava un amico e lo stimava.
È proprio qui, però, che la narrazione del Tito Livio storico augusteo barcolla un tantino. Tacito, negli Annali, ci ricorda che lo stesso Ottaviano gli dava del Pompeianus, date le grandi lodi che aveva tributato a Pompeo Magno, avversario di Cesare e difensore della Repubblica. D’altra parte Livio non pare troppo innamorato della monarchia (cosa comunque difficile quando si parla degli ultimi fra i sette re di Roma), e la città di Padova, da cui proveniva, aveva mostrato decise simpatie senatorie durante la Guerra Civile.
Ora, se Livio fosse stato un semplice propagandista del regime augusteo, queste contraddizioni non dovrebbero saltar fuori. Il fatto è che alle volte persino gli storici sono uomini e, in quanto tali, persone. Si può chiudere in una scateletta ben definita il propagandista insieme alla sua propaganda; provate a chiuderci un uomo, se ci riuscite!
Come tanti altri rappresentati di quella che alcuni onniscenti accademici si ostinano a chiamare “propaganda augustea”, Tito Livio non si può racchiudere nel suo puro ruolo celebrativo del Principato. Era amico di Augusto, certo, ma ammirava Pompeo. Il Principato non gli dispiaceva, ma non sputava neanche addosso alla Repubblica. Non si trattava poi di un’adesione formale agli ideali augustei, o della beffarda ironia ovidiana, che nel celebrare la facilità di costumi (del tutto contraria proprio a quegli ideali) nell’Ars Amatoria non manca di farcirla con una lode dei fori, prodotto del mecenatismo di Ottaviano stesso. Insomma, l’adesione di Livio agli ideali del suo amico, il princeps senatus, era sincera quanto lo era il suo distacco. Ed è qui che bisogna iniziare a chiedersi: ha davvero senso parlare di propaganda?
Di solito quando due persone in contrasto fra loro hanno entrambe ragione, il problema è l’inquadratura che si è data alla faccenda. Qui non si fa eccezione. Il problema è che finché consideriamo la celebrazione dei successi augustei come propaganda, essa continuerà a sfuggirci tra le dita. Si tratta di un qualcosa di più sfumato e più liquido, se mi è permesso il paragone, della rigida e ferrea propaganda dell’ultimo secolo. Il carattere licenzioso dell’Ars Amatoria come delle Metamorfosi fu tollerato finché possibile, né d’altra parte si procedette alla censura delle opere una volta che Ovidio fu esiliato; allo stesso modo, nessuno impedì a Livio di lodare Pompeo e la Repubblica.
A differenza dei regimi moderni, Augusto non aveva davvero interesse a togliere dalla mente dei suoi sudditi ogni pensiero che non fosse in linea con i suoi; il controllo del pensiero è roba molto più giovane. Voleva forse di più che il suo ideale fosse ben rappresentato e sostenuto; voleva poeti, non pubblicitari, storici, non ideologi. D’altra parte il principe si era proposto come arbitro e pacificatore, non come tiranno illuminato dei Romani. I candidi e numerosi inviti al suicidio di Nerone erano quanto di più lontano egli potesse immaginare dal suo governo.
Ciò che insomma bisogna ammettere è che il potere di Augusto, non ancora imperiale, non era neanche assoluto, né voleva esserlo. Voleva sì essere celebrato, ma non divinizzato; accettava gli elogi ma non i panegirici e infine non si dilettava nella propaganda, per lo meno non come la intendiamo oggi. Accettava gli scrittori come liberi individui, pure se grati al suo mecenatismo più o meno diretto; la qual cosa forse può sorprendere il postmoderno, il quale vorrebbe che tutti gli scrittori di regime fossero dei mediocri Plinio il Giovane, ma di certo non lo studioso di storia che l’ha vista ripetersi all’infinito negli eoni.
Alla fine, forse, sarebbe da imparare il primo ammonimento della storia: essa si ripeterà pure ma mai uguale, e la capiamo attraverso le differenze e non le somiglianze col nostro tempo. Usare categorie nostre (come la propaganda) per comprendere un passato lontano, non è sempre la scelta più saggia.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.