Ormai possiamo ammetterlo: il Popolo della Famiglia, il partito di Mario Adinolfi, ha fallito, per lo meno politicamente. Non è stato in grado di diventare un’alternativa vera ed ha finito col mescolarsi ad altri partitini irrilevanti senza riuscire ad ottenere spinta sufficiente neanche da questi. Questo è un fatto su cui non è dato discutere, la realtà ha sentenziato e questo è quanto.
L’eredità che ha lasciato è però persino più miseranda: oltre ad aver polarizzato il dibattito, riducendolo ad una lotta tra fazioni nel tentativo di accaparrarsi gli indecisi (non dimentichiamo quel “chi non vota per noi non è un bravo cristiano”), il suo lascito è stato principalmente una serie di piccoli circoli chiusi guidati da microinfluencer che se la cantano e se la suonano mentre il mondo cade in rovina.
La presenza in rete era stato uno dei punti di forza del partito, che era stato davvero capace di arrivare a tanti e di portare nel dibattito pubblico le sue istanze, impresa ultimamente riuscita a molto pochi. Non era però stata abbastanza; d’altra parte trasformare i like in voti è un’arte che di fatto ancora non è riuscita a nessuno: è difficile convincere una persona con cui ci si è trovati d’accordo una volta ad affidarti il suo futuro. Ciononostante aveva portato degli innegabili frutti: il fondatore, Mario Adinolfi, era costantemente in televisione, presente a tutti i talk show e sulla bocca di tutti con le sue posizioni pro-famiglia e, mi si conceda, “conservatrici”. Il fatto che ci andasse in quanto punching bag di tutti gli altri all’epoca non importava, ed anzi sembrava circondare l’impresa con l’aureola del martirio che ai cristiani piace tanto.
Il fatto è che un bel martirio, come un bel gioco, dura poco; una volta che il cristiano è andato incontro alle belve o alla ghigliottina, per una ragione o per l’altra è poco incline al ripetere l’esperienza. Invece Adinolfi ed adinolfiani, imperterriti, hanno continuato e continuano tutt’ora a cercare belve affamate con delle belle fauci in cui tuffarsi; hanno continuato ad accettare ghigliottine e pubblico ludibrio cui potevano sottrarsi. Le intenzioni erano certamente buone, ma i risultati sono andati in senso opposto. Non importa se portavano argomenti e istanze ragionevoli, una volta che si è messi alla berlina si diventa automaticamente i cattivi e le idee, se non in mano ad oratori eccezionali e straordinariamente preparati su ogni argomento, finiscono presto coll’essere bollate come ragionamenti melati e manipolatori dietro cui si cela una volontà malvagia.
Il PdF non aveva né dei Catone, né dei Demostene e sul grande pubblico fece poca presa. Aveva però tanti piccoli Pericle che credevano di star vincendo, solo perché il loro portavoce diceva quello che loro pensavano di fronte a tanti. Tanti piccoli megafoni che facevano arrivare a quelli che erano già convinti le idee di cui già erano convinti, e questi sono ciò che è rimasto. Brava gente che ripete come sue opinioni quelle che sono le convinzioni del gruppo e per questo riceve apprezzamento e approvazione, come un demagogo qualsiasi, ed è triste vedere la speranza di molti ridotta a questo. Vedere il tentativo di essere rilevanti finire su di un post su facebook con qualche centinaio di like e condivisioni, che, ricordiamolo, non sono voti.
Samuele Baracani: nato nel 1991, biellese, ma non abbastanza, pendolare cronico, cresciuto nelle peggiori scuole che mi hanno avviato alla letteratura e, di lì, allo scrivere, che è uno dei miei modi preferiti per perdere tempo e farlo perdere a chi mi legge. Mi diletto nella prosa e nella poesia sull'esempio degli autori che più amo, da Tasso a David Foster Wallace. Su ispirazione chauceriana ho raccolto un paio di raccontini di bassa lega in un libro che ho intitolato Novelle Pendolari e, non contento, ho deciso di ripetere lo scempio con Fuga dai Faggi Silenziosi.